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Nomine, G7, legge elettorale. Perché il governo Gentiloni non avrà vita breve

Depositata la polvere della rapidissima crisi di governo, è possibile analizzare meglio la nuova fase politica che durerà finché “il governo avrà la fiducia del Parlamento” come ha detto il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, nel suo primo discorso alla Camera il 13 dicembre. Il che significa votare presto, come vorrebbero Matteo Renzi e le opposizioni, oppure arrivare al febbraio 2018, come vorrebbero altri a cominciare dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

LA DATA FATALE

Prima il mondo doveva finire o meno il 4 dicembre, data del referendum, ora tutti attendono il 24 gennaio, giorno dell’udienza della Consulta che deve valutare l’eventuale incostituzionalità della legge elettorale Italicum. A fronte della fretta di molti, il giudice costituzionale Giancarlo Coraggio (eletto dal Consiglio di Stato quattro anni fa) a Corriere.tv ha confermato che quella del 24 è un’udienza e che poi bisognerà aspettare il deposito della sentenza. Anche se “il relatore sa dell’urgenza”, non c’è dubbio che passeranno diversi altri giorni. Dunque, mentre i partiti sotto traccia stanno già cominciando a discuterne, solo da febbraio l’Italicum sarà quasi certamente defunto ed è molto improbabile che partiti con interessi così diversi possano mettersi d’accordo rapidamente. Mattarella, comunque, vuole una legge omogenea perché giudica inconcepibile andare a votare con due sistemi diversi per Camera e Senato.

I RISCHI DEL VUOTO DI POTERE

Il rifiuto di accogliere ufficialmente Ala di Denis Verdini nella maggioranza di governo, con conseguente ministero, per ora rende risicata la maggioranza al Senato, salvo aiuti dell’ultimo minuto tutt’altro che impossibili. Non è un caso che Gentiloni nel suo discorso abbia detto che “ci auguriamo che possano maturare appoggi e convergenze più larghe su singoli provvedimenti”. Ma quello che si tende a dimenticare in caso di elezioni, soprattutto se anticipate, è che tra lo scioglimento delle Camere almeno 45 giorni prima del voto e i tempi tecnici di insediamento del nuovo Parlamento e del nuovo governo occorrono almeno due mesi e mezzo nei quali l’attività è di fatto paralizzata. Per esempio, nel 2008 si votò il 13 aprile e il governo di Silvio Berlusconi ottenne la fiducia il 14 e 15 maggio mentre nel 2013 si votò il 24 febbraio e quello di Enrico Letta (a causa della “non vittoria” del Pd di Pier Luigi Bersani) ottenne la fiducia oltre due mesi dopo, il 28 aprile.

LE FORZE DI UN GOVERNO DEBOLE

Se si votasse a giugno, come vorrebbe Renzi e qualcuno ha già ipotizzato domenica 4, si dovrebbe sciogliere il Parlamento in aprile. Il 25 marzo a Roma si celebreranno i 60 anni della firma del Trattati che istituirono la Comunità economica europea che Gentiloni ha definito “una scommessa sul futuro, un momento di discussione proiettato verso l’avvenire” nel discorso alla Camera. Come “proietterebbe” l’Italia verso il futuro un governo in uscita, che dunque non potrebbe prendere alcun impegno? Non solo. Il 26 e il 27 maggio Taormina ospiterà il G7, al quale parteciperà per la prima volta il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, che si insedierà il 20 gennaio. La presidenza italiana del summit si presenterebbe “senza” governo e a pochi giorni da elezioni prevedibilmente dirompenti? Non va neanche dimenticato che tra aprile e maggio sono fissati i due turni delle elezioni presidenziali francesi e che a Bruxelles farebbero volentieri a meno di un secondo motivo di tensione. Se invece l’esecutivo arrivasse indenne all’inizio dell’estate, si arriverebbe al 2018 perché è sempre stato irrealistico un voto autunnale per la concomitanza con la Legge di bilancio. Superare l’estate, dunque, renderebbe di fatto ininfluente il desiderio delle centinaia di parlamentari alla prima legislatura che devono aspettare la metà di settembre per beneficiare del vitalizio a 65 anni.

LE EMERGENZE…

Nelle convulse ore dell’insediamento sono due le emergenze immediate da affrontare: le banche e il post terremoto. La situazione del Monte dei Paschi di Siena e il possibile salvataggio statale sono in evidenza, anche se Gentiloni alla Camera non ha citato Mps parlando in generale del settore bancario. I costanti riferimenti ai risparmi dei cittadini così come alle difficoltà del ceto medio e ai problemi del Mezzogiorno dimostrano di voler essere realisti e nello stesso tempo la reintroduzione di un ministero ad hoc sottintende del tempo per agire, piuttosto che elezioni a breve. Alle aree del Centro Italia distrutte dai terremoti va quotidianamente l’attenzione di Mattarella ed è una delle priorità anche per Gentiloni.

Anche l’immigrazione resta un’emergenza, naturalmente. Il presidente del Consiglio ha detto che “non è accettabile” un’Europa troppo severa su alcune politiche di austerity e “troppo tollerante” con quei Paesi che non accettano migranti. Per ora la patata bollente passa al neoministro dell’Interno, Marco Minniti: i dati ufficiali del Viminale dicono che al 13 dicembre sono sbarcate 177.533 persone, il 18,68 per cento in più dell’anno scorso.

… E QUALCHE NOMINA

In un governo quasi-fotocopia del precedente Gentiloni ha concesso molto a Renzi con la permanenza di Maria Elena Boschi e di Luca Lotti, ma ha anche negato a quest’ultimo l’agognata delega ai servizi segreti alla quale il giovane neoministro dello Sport puntava fin dal 2014, quando dagli Usa fecero capire a Renzi che sarebbe stato molto più opportuno concederla a Minniti. Per ora Gentiloni tiene la delega per sé e sarà interessante capire se nei prossimi mesi Lotti continuerà a tenere contatti con i vertici dei servizi segreti come ha fatto finora nonostante il titolare fosse Minniti.

In mezzo alle emergenze, si avvicina per il governo anche la decisione su alcuni vertici militari di particolare delicatezza. A metà gennaio finirà l’incarico del comandante dei Carabinieri, generale Tullio Del Sette, 65 anni, e alla fine di febbraio quelli del capo di Stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, e del capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Danilo Errico, entrambi di 63 anni. Difficile trovare un alto ufficiale che non desideri una proroga e Renzi era restio a concederne, anche se le posizioni dei tre ufficiali sono diverse. Graziano vorrebbe diventare presidente del comitato militare della Nato, ruolo di prestigio già rivestito dall’Italia con gli ammiragli Guido Venturoni e Giampaolo Di Paola. L’attuale presidente, il ceco Petr Pavel, scadrà nel giugno 2018, ma fu nominato nel settembre 2014. Graziano, dunque, vorrebbe ottenere una proroga per arrivare verso la fine del prossimo anno in servizio e concorrere così a quella poltrona che prevede un mandato triennale e che certamente darebbe lustro all’Italia. Più lontana, invece, la scadenza del generale greco Mikhail Kostaracos dalla presidenza del comitato militare Ue: lascerà nel novembre 2018. Per Del Sette, che ha già compiuto i 65 anni, sembra più difficile e, così come Errico, si troverà a dipendere dal clima politico: se Gentiloni vuole dare peso al suo governo senza curarsi della durata potrebbe procedere a nuove nomine (con l’eccezione di Graziano per “interesse nazionale”); se invece volesse lasciare al nuovo esecutivo la scelta di incarichi così delicati potrebbe prorogare tutti. Solo ipotesi, naturalmente, in una situazione quanto mai fluida.

In generale, è evidente che Renzi resti azionista di riferimento del governo, ma è da verificare che sia lui il titolare della “golden share” piuttosto che Mattarella. Come diceva Enrico Cuccia (e forse prima di lui Donato Menichella), le azioni si pesano e non si contano.



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