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Tutte le tattiche di Matteo Renzi per non essere rottamato nel Pd

Matteo Renzi

Una certezza c’è, ma è l’unica: dopo aver abbandonato Palazzo Chigi e indicato il nome di Paolo Gentiloni come suo successore, Matteo Renzi non ha alcuna intenzione di farsi da parte. L’obiettivo dell’ex presidente del Consiglio è riportare gli italiani al voto nel più breve tempo possibile: un appuntamento al quale conta di presentarsi da candidato premier del Partito Democratico e del centrosinistra.

Il segretario democrat non lascia: la sua campagna elettorale in pratica è già iniziata. A sancirne l’avvio un post su Facebook pubblicato ieri pomeriggio, con il quale l’ex premier ha inaugurato una sorta di fase due: non più il baldanzoso presidente del Consiglio che rivendica i risultati ottenuti alla guida del governo, bensì il candidato in pectore alle prossime politiche che si rimette in gioco e che chiede ai cittadini di indicargli problemi e limiti della sua stagione alla guida dell’esecutivo: “Quale scelta vi ha colpito di più in positivo e quale vi è sembrato l’errore più grande di questi tre anni? Delle tante riforme dalla scuola al lavoro, dal sociale ai diritti, dall’Expo alle tasse cosa cambiereste? E soprattutto qual è la priorità secondo voi per i prossimi mille giorni?“.

Di pari passo l’ex sindaco di Firenze porterà avanti la partita più complessa, quella che si gioca all’interno del Partito Democratico. E qui le certezze vacillano. Domenica a Roma – all’hotel Ergife, in zona Aurelia – si riunirà l’assemblea nazionale del Pd per cominciare a discutere il da farsi: il primo tema all’ordine del giorno sarà la decisione sulla data del prossimo congresso su cui maggioranza e minoranza appaiono ancora una volta divisi. I renziani – e non solo – vorrebbero stringere i tempi e procedervi speditamente, nei primi mesi del prossimo anno. La sinistra dem, invece, ha già annunciato di essere contraria ad ogni ipotesi di anticipo.

Secondo quanto hanno raccontato a Formiche.net alcuni degli esponenti politici più vicini all’ex premier, Renzi su questo punto non pare intenzionato a fare le barricate. Il suo obiettivo di fondo rimane il voto anticipato al quale punta ad arrivare il prima possibile e con una forte legittimazione popolare. Il piano B – nel caso in cui Pierluigi Bersani, Roberto Speranza e gli altri continuassero ad opporsi al congresso anticipato – prevede lo svolgimento di primarie di coalizione aperte anche alle forze politiche alleate, in primis alla nuova formazione di sinistra cui sta dando vita l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. In questo caso il congresso del Pd si svolgerebbe dopo le elezioni politiche, per le quali la prima data utile rimane il prossimo giugno (già si vocifera di domenica 11), subito dopo il G7 di Taormina del 22 e 23 maggio.

Non sarà facile, però, per Matteo Renzi imporre la sua tabella di marcia al partito, al governo e pure al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Su questo ferreo proposito del segretario Pd gravano, infatti, non poche incognite: le principali le scioglierà la Corte Costituzionale al ritorno dalle feste di Natale. L’11 gennaio la Consulta si pronuncerà sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Cgil sul jobs act e il 24 gennaio sulla legittimità costituzionale dell’Italicum.

L’eventuale sì al referendum sul Jobs act comporterebbe, con ogni probabilità, un’accelerazione verso il voto anticipato: d’altronde, Renzi non può permettersi che uno dei suoi principali cavalli di battaglia venga affossato da un’altra – possibile ma non scontata – pioggia referendaria. La soluzione in questo caso – dal punto di vista della maggioranza di governo – è quella indicata dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti: indire elezioni politiche prima del referendum sul Jobs act, che verrebbe così spostato in avanti. Dall’altra parte si dovrà ovviamente affrontare la questione legge elettorale: su questo fronte l’ipotesi più probabile – su cui stanno lavorando i rappresentanti delle varie forze politiche – è un proporzionale con clausola di sbarramento intorno al 3%. C’è però anche chi è pronto a scommettere che un accordo non si troverà e che alla fine si andrà al voto sulla base della sentenza della Corte Costituzionale e solo con un intervento minimo per cercare di rendere omogenee le leggi elettorali di Camera e di Senato.

Nel frattempo, inoltre, in casa Pd occorrerà verificare la possibilità di raggiungere un accordo con la minoranza dopo la rottura sul referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre. D’altronde – come osserva ancora un renziano consultato da Formiche.net – le parole d’ordine dell’ex presidente del Consiglio in questa fase sono due: legittimazione – e, quindi, la necessità di sottoporsi a un bagno di folla rigenerante – e poi chiarimento. Nel senso che Renzi è intenzionato ad aprire un reale dibattito interno su quanto avvenuto in occasione della campagna referendaria. “Così non si può più andare avanti, quanto accaduto negli ultimi mesi non dovrà ripetersi mai più“, ha sottolineato un altro dei più stretti collaboratori del segretario Pd. Una resa dei conti interna, dunque, ci sarà, ma non è detto che sia così cruenta come affermano, invece, molti analisti politici in queste ore.

Gli stessi renziani sottolineano che “Renzi non vuole cacciare nessuno dal Pd“, neppure Bersani, D’Alema e Speranza. D’altro canto smentiscono seccamente pure l’ipotesi che l’ex presidente del Consiglio saluti tutti per andare a fondare un suo movimento politico. Secondo un sondaggio pubblicato nei giorni scorsi da Porta a Porta, un partito del genere si attesterebbe già intorno al 20% dei consensi, mentre i democratici precipiterebbero al 12-13%. Renzi però – assicurano i suoi – sarebbe assolutamente contrario a una scelta del genere. Le ipotesi quindi, alla fine, rimangono due: che si trovi una difficile sintesi interna con la minoranza oppure che sia la stessa minoranza a decidere di fare i bagagli. Uno scenario, quest’ultimo, definito però altamente improbabile dalle parti del Nazareno. Molto, però, dipenderà dalla legge elettorale che eventualmente sarà approvata: il ritorno al proporzionale – seppur mitigato dall’introduzione di una clausola di sbarramento – renderebbe meno complicata la strada dell’addio alla sinistra dem. Forse, con buona soddisfazione di tutti.


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