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Quale legge elettorale per l’Italia?

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Il 2016 si sta ormai chiudendo anche dal punto di vista politico. Guardando in un’ottica generale, senza dubbio si è trattato di dodici mesi all’insegna delle riforme costituzionali, iter conclusosi poi con l’altissima affluenza al referendum. La forte attestazione del No ha chiuso questa articolata stagione e ha decretato la fine del governo Renzi.

Il prossimo anno pertanto, come ha notato giustamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha già due certezze: si andrà verso la fine della legislatura, e il Parlamento, auspicabilmente con una maggioranza molto estesa, dovrà darsi una nuova legge elettorale.

Qui sorge il problema che è e sarà al centro della discussione prossima ventura. Quale legge elettorale per l’Italia?

In tanto è banale ma essenziale rilevare che non esiste una legge elettorale perfetta, e non ne esiste soprattutto una perfetta per ogni Paese e in ogni circostanza.

Se, ad esempio, si prende il maggioritario, tale sistema va benissimo per Paesi che hanno una forte omogeneità nazionale e una grande partecipazione territoriale. Il suo limite è invece la non rappresentatività piena dell’elettorato, aggravata nei casi in cui appunto non vi siano tali condizioni di partenza presenti nella comunità. Il proporzionale puro, viceversa, è quasi una fotografia della realtà sociale, ma presuppone un sistema di partiti forti senza il quale si determina una situazione di ingovernabilità.

È questa la vera ragione per cui alla fine si tenta ogni volta di fondere i due sistemi, creando, o con le preferenze nel proporzionale o con la quota proporzionale nel maggioritario, dei correttivi, sempre ovviamente parziali e mai soddisfacenti per tutti.

Dico questo per chiarire che non ha senso cercare la legge perfetta e ha ancor meno senso arroccarsi su un muro contro muro.

Dopodiché è altrettanto sicuro che le diverse forze politiche inevitabilmente sostengono la legge che è ritenuta più consona al proprio successo, tentando di coniugarla con il vantaggio minore per i contendenti.

Di qui l’impasse in cui quasi sempre finisce il dibattito.

La domanda interessante, proprio per questo complesso ginepraio, dovrebbe essere riformulata pertanto, pensando a quale potrebbe essere la legge elettorale più adeguata all’Italia, al di là dei singoli interessi di parte.

Il primo criterio che solitamente si chiama in causa è la governabilità. Una legge è buona, si dice, se dà un vincitore all’indomani delle elezioni. Fu questo intento anti partitico che spinse ad approvare il Mattarellum nei primi anni ’90, un modello appunto maggioritario con quota proporzionale. In realtà, però, con tale sistema non si determinò per nulla una governabilità di legislatura, proprio perché i particolarismi di coalizione, con le desistenze e le alleanze a geometrie variabili, sono stati in grado di mettere in difficoltà in itinere sia Prodi e sia Berlusconi.

Il punto è che una legge elettorale non può di per sé dare una stabilità politica laddove questa non c’è, così come non si piò creare un bipartitismo qualora non vi sia già una polarizzazione corrispettiva del consenso nel Paese.

Bisogna prendere atto, insomma, che l’Italia non è una nazione bipolarista ma polidentitaria: non è stata bipolarista, infatti, quando dominavano la scena Dc e Pci, non lo è stata nei vent’anni di berlusconismo e oggi lo è ancora meno con la presenza, oltre centrosinistra e centrodestra, del M5S.

Considerando così le cose, varrebbe la pena ragionare seriamente e con maggiore lungimiranza ad una legge elettorale di tipo proporzionale, la quale metta in condizione di riprodurre il pluralismo delle voci politiche presenti nella società, evitando con uno sbarramento l’eccessiva moltiplicazione dei partiti.

D’altronde, un’eventuale opzione proporzionale, per altro conforme alla nostra tradizione culturale, con l’aggiunta delle preferenze eliminerebbe la annosa questione dei candidati calati dall’alto, dando due benefici aggiuntivi.

In primo luogo i diversi partiti politici avrebbero la necessità di darsi un assetto identitario, non soltanto offrendo una pluralità di programmi ma anche costringendo ad affermare alcuni valori di sostanza. E in secondo luogo vi sarebbe poi l’esigenza, cosa molto importante specialmente per il M5S, di dover tornare a fare politica, discutendo e accordandosi per formare maggioranze parlamentari.

Non è vero che tutti gli accordi sono inciuci e intrallazzi, ma lo sono solo quelli determinati da un distacco della politica dai cittadini. Un sistema democratico non ha bisogno che il consenso si omogeneo, ma che il popolo sia sovrano. D’altronde una nazione non omogenea nelle scelte politiche, come la nostra, non può essere ridotta ad unità assoluta senza perdere democrazia, cosa che sia l’Italicum e sia il Porcellum, ma anche il Mattarellum, in un certo modo, determinerebbero.

La soluzione migliore per l’Italia, in definitiva, potrebbe venir fuori da un buon proporzionale. E magari, chissà, il dover scegliere se presentarsi come partiti progressisti, conservatori o movimentisti avrebbe perfino il merito di far tornare la politica ad essere politica e la nostra Repubblica una piena e compiuta democrazia.


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