Gli investigatori dovranno capire meglio il percorso di Anis Amri nelle carceri italiane, i suoi spostamenti in Europa e il perché del ritorno in Italia dov’è stato ucciso nelle prime ore del 23 dicembre da un poliziotto a Sesto San Giovanni. Gli elementi a disposizione finora danno per scontato che proprio nei quattro anni trascorsi nelle carceri italiane il terrorista tunisino responsabile dell’attentato di Berlino del 19 dicembre si sia avvicinato all’Islam radicale. Torna così d’attualità un tema che, purtroppo, continua a non avere lo spazio che merita, tranne che in sporadiche dichiarazioni: creare finalmente in Italia un concreto programma di deradicalizzazione che prosciughi l’acqua di coltura dei potenziali jihadisti.
Un testo di legge giace alla Camera quasi dimenticato. Lo rilancia uno dei suoi promotori, Andrea Manciulli (Pd, nella foto), presidente della delegazione italiana presso l’assemblea della Nato e vicepresidente della commissione Esteri di Montecitorio oltre che uno dei politici più esperti di terrorismo. Presentato insieme con Stefano Dambruoso (Civici e Innovatori), che da magistrato a Milano si è ampiamente occupato di questi temi, il testo su “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista” depositato a gennaio 2016 finora è stato discusso in sole tre sedute della commissione Affari costituzionali della Camera, l’ultima il 23 giugno, come risulta dal sito istituzionale. La prova che la politica non ha capito niente. Nell’unirsi alla soddisfazione per l’operazione di polizia che ha portato alla morte di Amri, Manciulli ha aggiunto che “la vicenda di Anis Amri, radicalizzatosi in carcere, obbliga tutti a un’ulteriore riflessione che deve darci come obiettivo l’approvazione rapida della legge che abbiamo presentato alla Camera insieme a Dambruoso sul contrasto alla radicalizzazione, perché il tema del proselitismo nelle carceri, nelle scuole e nei luoghi di lavoro non può essere questione secondaria”.
Nel convegno sul terrorismo organizzato dall’Arma dei Carabinieri il 30 novembre, l’allora sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri aveva fornito i dati più aggiornati sulla situazione nelle carceri: sono 371 i detenuti islamici sotto controllo perché a rischio radicalizzazione, divisi in tre categorie di allarme crescente. “I monitorati sono 167 – disse Ferri –, gli attenzionati sono 67 e i segnalati 137. Sono 34 le persone espulse a fine pena”. Il metodo delle espulsioni è sicuramente efficace. Per esempio il 6 dicembre fu rispedito a Casablanca un marocchino di 32 anni, detenuto a Cassino per reati comuni: l’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, spiegò che aveva confidato “a un compagno di detenzione l’intenzione di realizzare, una volta libero, un attentato in Vaticano, utilizzando una macchina piena di esplosivo e un’arma di tipo kalashnikov, che gli sarebbero state procurate a Roma da un suo referente. Inoltre, il marocchino è stato descritto come soggetto ‘scatenato’, ‘fanatico’, desideroso di ‘morire in nome di Dio per comprare il Paradiso’ e animato da sentimenti di vendetta verso lo Stato italiano”. Si era radicalizzato a Regina Coeli e aveva coinvolto un altro detenuto in questo percorso. Il 23 dicembre, a poche ore dal conflitto a fuoco di Sesto San Giovanni, il Viminale ne ha espulso un altro, un tunisino di 37 anni detenuto per reati comuni che aveva cercato di modificare le abitudini religiose nel carcere e coinvolto i compagni a pregare nella propria cella. Il suo eccessivo rigore nelle predicazioni aveva poi fatto allontanare altri detenuti. Siamo così a 131 espulsioni di estremisti dal gennaio 2015, di cui 65 nel 2016.
Questi esempi dimostrano sia il pericolo potenziale che c’è anche in Italia sia l’attenzione con la quale la polizia penitenziaria e in genere l’antiterrorismo monitorano ogni possibile sospetto. Ma se è vero che funziona l’apparato di sicurezza, lo Stato dovrebbe approntare con urgenza altri mezzi per combattere il radicalismo, come sollecitano da tempo sottovoce gli stessi investigatori, visto che a livello europeo i tempi di approvazione di nuove norme sono lentissimi. Il 21 dicembre la Commissione Ue ha presentato un altro pacchetto di misure, la più importante delle quali è il Sis, Schengen information system, un meccanismo che lancia l’allarme tramite la banca dati di Schengen, dove dovranno essere inserite anche tutte le decisioni dei rimpatri dei migranti irregolari per evitare che cerchino di ritornare o scappare. Gli “allarmi” a cui avranno accesso tutti i 26 Paesi Schengen riguarderanno anche i “ricercati sconosciuti”, ovvero coloro che hanno commesso un crimine di cui non si conosce l’identità, ma di cui si ha per esempio il dna, le impronte digitali o foto. Visto che i terroristi si muovono in Europa come se niente fosse, con queste misure “in futuro nessuna informazione critica dovrà andare persa su potenziali sospetti terroristi o migranti irregolari che attraversano le nostre frontiere esterne” ha detto il commissario Dimitri Avramopoulos.
Inoltre, l’Ue vuole impedire il più possibile il finanziamento delle attività terroristiche e criminali: tra l’altro si punta a una direttiva per armonizzare la legislazione dei 28 Paesi sulla criminalizzare del riciclaggio di denaro sporco e a nuove regole per aggiornare quelle sui flussi di denaro contante dentro e fuori l’Ue, consentendo controlli anche sotto i 10 mila euro previsti dalle dichiarazioni doganali ed estendendoli anche a pacchi postali, spedizioni di merci, carte di credito prepagate e preziosi. E visto che per armonizzare la legislazione occorreranno tempi biblici, se nel frattempo si velocizzasse l’iter di quella proposta di legge alla Camera?