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Vi racconto Antonio Tajani

Misurato, equilibrato e mai una parola fuori posto, anche nei momenti più difficili. Non uomo di chiacchiere, ma di azione e di educazione borghese. Fino a rischiare di apparire grigio, incolore. Fino a diventare il presidente del Parlamento europeo. Sono queste le doti che gli valsero la stima di Gianni Letta – al quale Antonio Tajani è sempre stato molto legato – che lo introdusse nel cuore di “Silvio”.

“Antonio”, come lui, ex capo della redazione romana del Giornale di Indro Montanelli, si fa semplicemente chiamare dai colleghi giornalisti, quella mattina del dicembre del 1994 quando il primo governo Berlusconi alla Camera fu “dimissionato” dalla defezione di Umberto Bossi e dall’avviso di garanzia a Berlusconi, recapitatogli a Napoli qualche mese prima mentre era riunito con i grandi della terra, era già Tajani. Un vero soldato del Cav, disposto a seguirlo nella buona e nella cattiva sorte. Un soldato che a differenza di vari aspiranti, scalpitanti anzitempo delfini, ha sempre avuto questa massima come stella polare della sua avventura politica con “Silvio”: seguilo, visto che la leadership la ha lui e tu non la hai, perché il carisma se uno non ce l’ha non se lo può dare, ed esegui bene i suoi ordini.

Insomma, probabilmente il nuovo presidente del Parlamento europeo non ha mai creduto a logiche un po’ della serie “uno vale uno” delle primarie all’italiana. Ma ai criteri della vera meritocrazia. Aveva, dunque, quella nerissima mattina di dicembre del 1994, quarantuno anni, era il portavoce dell’appena tramontato primo governo Berlusconi. Sebbene fosse tra i fondatori di Forza Italia, lui non era deputato e al termine della seduta alla Camera prese dalla tribuna dei giornalisti l’ascensore insieme con tutti loro. A un certo punto, una cronista pensò di urlargli in faccia le sue idee di estrema sinistra così: “Fascisti, carogne, tornate nelle fogne”. Tajani non mosse un muscolo del volto, rimase come una sfinge, coriaceo. Ma si capiva che era colpito da quell’esplosione improvvisa di ira politica.

Ero un’inviata di politica parlamentare per l’Unità, stavo in quell’ascensore e appena raggiunto il Transatlantico di Montecitorio insieme con alcuni colleghi – non moltissimi per la verità – espressi la mia solidarietà ad “Antonio” aggredito in quel modo, proprio nel giorno di maggiore debolezza. Per lui erano stati mesi burrascosi, ogni volta a destreggiarsi in Tv, aiutato dalla professionalità, dal garbo e anche dal look borghese del ragazzo di buona famiglia, per smussare le dichiarazioni, non sempre molto caute, di questo e quell’altro esponente forzista della prima ora e anche di qualche un po’ troppo estrosa ed spiazzante, seppur sempre assai intelligente, uscita dell’allora ministro per i rapporti con il Parlamento Giuliano Ferrara.

“Antonio” faceva la parte televisiva del “piccolo” Letta, il grande diplomatico, la cui massima è: tenere sempre “comportamenti armonici”, anche nelle situazioni più difficili. E massimo rispetto sempre per gli avversari. Quando la sottoscritta telefonava a Tajani a Palazzo Chigi, in quei pochi e travagliati mesi del primo governo Berlusconi, per conto dell’Unità, diretta da Walter Veltroni, un giornale che dava ancora filo da torcere a Repubblica e comunque uno dei primi quotidiani dell’opposizione pro-sistema (si direbbe ora) a quell’esecutivo, “Antonio” al massimo dopo 10 minuti rispondeva. Come tutti i portavoce, o comunque come tutti quelli di rango elevato, sapeva ben dire il nulla avvolto però sempre da una chiave interpretativa, che spettava però alla bravura del cronista decriptare.

Tajani in seguito sfidò quel pezzo da novanta di Veltroni, vera macchina da guerra, per il Comune di Roma. Vinse “Walter”, ma Tajani perse con l’onore di un quasi 48 per cento. Me lo ricordo ancora quando da giornalista politico-parlamentare di Panorama, molti anni dopo, una notte della primavera del 2014 raggiunse Piazza S. Lorenzo in Lucina, dove il gruppo dirigente azzurro era affranto per lo shock delle elezioni europee con Forza Italia di colpo precipitata al 17 per cento. Gli chiesi lumi anche allora per il pezzo da scrivere. Anche allora, in quella nottataccia azzurra, non si scompose e mi disse poche ma significative parole: “Ora bisognerà ricostruire una nuova unità del centrodestra”.

Mentre gli stracci volavano tra gli esponenti azzurri ed era già partita la grande fuga da “Silvio”, giudicato ormai un perdente, un cavallo azzoppato (dopo la condanna definitiva Mediaset di qualche mese prima) sul quale non scommettere più neppure un centesimo. Ma Tajani rimase anche allora al suo posto, di soldato. Fu il passepartout di Berlusconi anni prima per entrare nella grande famiglia del Partito popolare europeo. Di lui un suo collega di Forza Italia mi spiegò una volta: “Vedi, mentre qui tutti si affannano, scalpitano e sgomitano l’uno con l’altro, Antonio avrà preso in tutti questi anni più aerei di uno steward dell’Alitalia, Roma-Strasburgo-Bruxelles andata e ritorno, così per tutta la vita, come ha messo in conto…”.

Un vero soldato. Di alto rango. L’ex ragazzo del Liceo Tasso a Roma, in gioventù con qualche simpatia monarchica, che con il premier Paolo Gentiloni, all’opposto di lui tra i fondatori del Pd, e Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato e big azzurro (suoi compagni del Tasso) ora è punta di diamante della riscossa dei sessantenni in politica. Contrordine “compagni”, anzi contrordine rottamazione.



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