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Trump, Roosevelt e i ricorsi storici

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Per quanto abominevole, ingiusto, grossolano ed insensato sia il bando di Donald Trump contro l’ingresso negli Usa di cittadini provenienti da sette Stati islamici, non è certo la prima volta che questa importante democrazia assume decisioni di analoga gravità (peraltro l’isolazionismo è una componente storica della politica americana). Senza soffermarsi a ricordare le misure limitative riguardanti i comunisti durante la guerra fredda, l’iniziativa più iniqua venne presa, nel 1942, dopo l’attacco a Pearl Harbour, da uno dei più grandi presidenti Usa, Franklin Delano Roosevelt, il quale non esitò a firmare il provvedimento che autorizzava la deportazione di 100.000 cittadini di origine giapponese dalla costa occidentale alle zone interne, raccolti in veri e propri campi di concentramento.

Misure analoghe non vennero adottate per le comunità italo-americane e tedesche (Roosevelt disse degli italiani che ‘’sono dei cantati lirici’’ e perciò non creavano preoccupazioni) benché i loro Paesi d’origine fossero in guerra con gli Stati Uniti. Pertanto l’operazione si caratterizzò anche per un indubbio motivo razzista. Anche allora vi furono reazioni contrarie. L’unione americana per le libertà civili definì quel provvedimento come “la peggiore e totale violazione dei diritti civili dei cittadini americani in tutta la nostra storia“.

Ma si trattò di posizioni minoritarie. La stampa liberal mantenne un silenzio assordante. Walter Lippmann, il grande comunicatore di quei tempi, arrivò a teorizzare che, essendo la costa del Pacifico zona di guerra, nessuno aveva il diritto costituzionale di “fare affari sul campo di battaglia“.


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