(seconda parte dell’analisi del ricercatore Luca Longo; la prima parte si può leggere qui)
Vediamo come questa nuova linea presidenziale potrà tradursi nella pratica. Prima di tutto, finirà … in fumo … ogni impegno americano per il contrasto al cambiamento climatico: fra gli altri, finiranno nel cestino il Clean Power Plan, gli accordi di Parigi, verrà ridimensionata la Environmental Protection Agency. Inutile dire che la carbon tax non vedrà mai la luce. Il governo rimuoverà il blocco alla costruzione di nuovi gasdotti e oleodotti così come i vincoli alle trivellazioni su terreni pubblici o entro riserve naturali.
Però le compagnie petrolifere hanno già più pozzi di quelli che possono usare e – alla faccia delle dichiarazioni di principio – non si sognano nemmeno di produrre petrolio e gas dallo shale perché i costi di estrazione – ora – sono superiori ai 60-65$ al barile e sarebbe un suicidio estrarre greggio con quella spesa per poi venderlo sottocosto attorno agli attuali 55$.
Quello che manca sono gasdotti, oleodotti e infrastrutture per il trasporto. Per questo, è prevedibile che la Dakota pipeline verrà finalmente realizzata insieme a diverse altre pianificate all’interno degli USA. Altro discorso vale per gli oleodotti transfrontalieri: ad esempio la Keystone XL non sarà probabilmente costruita. Non grazie a Trump ma per l’opposizione del nuovo governo liberale canadese (anche perché era prevista principalmente per il trasporto del costoso shale da Alberta…).
Ma si osserva un fenomeno più interessante: è possibile che anche le rinnovabili, alla faccia del presidente, se la possano cavare bene. Infatti, la spinta principale – e la maggior parte degli incentivi – viene dai singoli Stati. Anche gli Stati supertrumpiani come Iowa, Texas, Georgia e Kansas sono stracolmi di pale eoliche e di imprese per la loro costruzione, trasporto, installazione, allacciamento e manutenzione. In Kansas l’industria del vento è praticamente l’unica in espansione. Non è una questione di principio, è una questione di costi: gli impianti solari costano fino al 70% in meno rispetto a dieci anni fa. Anche per l’eolico, pale sempre più grandi ed efficienti hanno abbassato significativamente il costo del kilowatt. Infatti, gli occupati nel settore dell’energia solare aumentano del 20% ogni anno ormai da sei anni, e le oltre 500 aziende che realizzano componenti per le pale eoliche sono distribuite in 43 Stati su 50.
Inoltre, il Congresso ha già esteso il credito sulle tassa di produzione da energie rinnovabili fino al 2021. Volendo dare retta ai fatti, non ci si può aspettare un significativo decremento del settore rinnovabile a stelle e strisce.
Come per i regolamenti sull’energia, anche la maggior parte dei regolamenti sulla tutela dell’ambiente sono di competenza dei singoli Stati. Qui la situazione è più complessa: si va dalla California, che si è data una stringente regolamentazione ambientale, fino all‘Oklahoma, che ne è quasi privo. E chi sbaglia paga, perché proprio l’aumento dell’attività sismica indotta dal fracking in Oklahoma ha spinto altri stati, da New York alla Pensylvania, a darsi regolamenti anti fracking.
In altri stati le cose vanno anche peggio per i fossili: ad esempio la California spinge decisamente sulle rinnovabili e ha l’obiettivo di raggiungere una quota rinnovabile del 50% entro il 2030. Altri 28 Stati hanno (e mantengono) obiettivi più o meno ambiziosi per la progressiva sostituzione dei fossili con fonti meno impattanti.
Il futuro del carbone rimane oscuro … come il carbone. Anche se il fracking ha i suoi guai, fra i quali l’induzione (occhio: l’induzione, non la creazione!) di terremoti, emissione di gas e acque di produzione, perdite di idrocarburi, questi passano in secondo piano rispetto al rilascio di particolati, metalli pesanti, solfuri, nitrati e altre schifezze che caratterizza l’uso del carbone.
Molti Stati hanno comunque avviato la transizione dal carbone al gas, e non si prevede che le future regolamentazioni federali produrranno cambiamenti di rotta.
Il carbone americano viene in misura significativa esportato proprio verso la Cina e il mercato asiatico, ma, ancora una volta, non è il governo centrale ma sono i singoli Stati a regolare il trasporto verso i terminali marittimi. Questi ultimi si trovano principalmente in California, Oregon e Washington e proprio qui sono iniziati i lavori di smantellamento dei terminali e delle infrastrutture ferroviarie connesse con il trasporto e l’imbarco del carbone.
Anche senza preoccuparsi troppo dell’inquinamento, l’estrazione di questo combustibile solido rimane una attività costosa e non seriamente competitiva rispetto agli altri idrocarburi. Inoltre, Pechino ha annunciato che nei prossimi cinque anni aumenterà fino al 19% la propria produzione di carbone, e non solo per i consumi interni. Questo metterebbe comunque fuori gioco le esportazioni di carbone americano certamente gravato da maggiori costi di estrazione rispetto a quello cinese.
Ora che anche a Dubai – che letteralmente galleggia sul petrolio – sta investendo pesantemente su enormi impianti solari, Trump e la sua guerra alle rinnovabili fanno venire in mente il protagonista di un noto romanzo di Miguel de Cervantes che, non a caso, se la prendeva proprio con… le pale eoliche.
(2.fine)