Congresso o primarie? Quale dei due istituti risponde meglio alle caratteristiche della prossima legislatura? La scelta delle primarie comporta la semplice individuazione del “campione” che dovrà affrontare il responso delle urne. Presuppone, in altri termini, una piattaforma programmatica, seppure di massima, condivisa dal partito di riferimento. Il congresso, invece, costruisce, nello stesso tempo, la piattaforma politica e, sulla base di quel confronto programmatico, selezione il gruppo dirigente. Individua anche il leader, ma all’interno di una compagine risultato della necessaria sintesi unitaria. Anche se di maggioranza relativa. A ben vedere ipotesi diverse. Se non addirittura contrapposte.
I prossimi anni saranno segnati da scelte difficili, che derivano dalla complessa situazione italiana. Andando all’osso, tre sono i grandi problemi che dovranno essere affrontati: il tema dello sviluppo, quello dell’equilibrio finanziario, il dramma della povertà e dell’esclusione sociale. I primi due aspetti sono tra loro complementari. La crescita economica rende meno drammatico l’equilibrio di finanza pubblica e contribuisce a rendere meno gravoso il peso del debito pregresso. Ipotesi che, invece, sono conflittuali con la necessità di una più equa redistribuzione del reddito.
Da che mondo è mondo, la crescita economica, almeno in una prima fase, comporta uno squilibrio nella distribuzione del reddito. Senza volersi rifare ai numerosi scritti sull’argomento, basta guardare a quanto è successo in Italia. Negli anni ’60, lo sviluppo italiano fu impetuoso, con ritmi di crescita del Pil, mai più raggiunti.
La golden age: come la definiscono gli storici. Grazie al “miracolo economico”, il debito contratto nel periodo bellico fu rapidamente abbattuto. Ma le condizioni sociali del Paese furono disastrose: grande povertà, emigrazione di massa non solo verso l’estero, ma verso le aree più forti del Nord; abbandono del Mezzogiorno e crescita di una nuova classe operaia a Torino, come a Milano, costrette a vivere nella più assoluta indigenza. “Rocco ed i suoi fratelli”: il film di Luchino Visconti. Alla fine di quel lungo ciclo, l’Italia era un Paese che esportava tutto: uomini, merci e capitali.
Ci volle il centrosinistra, a metà degli anni ’60, per spostare il pendolo verso la parte opposta. Grandi nazionalizzazioni, lotte sindacali per ridurre il ritmo di sfruttamento ed aumentare i salari degli occupati. Il tutto accompagnato da quella rivoluzione nei costumi, che fu il ’68. Da allora in poi ci cercò di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte; un tasso di sviluppo più contenuto, ma una maggiore attenzione al welfare ed alla povera gente. I due corni del dilemma che riemergeranno durante la prossima legislatura. E che potranno essere meglio affrontati se il congresso del Partito di maggioranza relativo troverà al suo interno la sintesi necessaria.
Problema solo del Pd? Al contrario. Allo stesso esercizio, seppure in forme e con modalità diverse, saranno anche chiamate le altre forze politiche, le cui elaborazioni programmatiche sono ancora in una fase embrionale. Che soluzioni propongono per la crisi del Paese? Lasciamo stare i “cinque stelle”, che vivono un po’ sulla luna e si nutrono solo della crisi altrui. Ma quali sono le proposte dei centristi? E quelle dei cosiddetti “sovranisti”? Siamo solo a slogan senza contenuto. C’é forse qualche riflessione vera sulle eventuali conseguenze dell’abbandono dell’euro? Eppure il necessario dietrofront di Alexis Tsipras, in Grecia, dovrebbe far riflettere. Aveva dietro le spalle i risultati di un referendum, ma alla fine ha dovuto chinare la testa di fronte alle richieste europee e delle grandi istituzioni internazionali.
La giusta e necessaria difesa della sovranità nazionale, pure in Mondo che resterà comunque interconnesso, non può essere scambiata con un ritorno all’autarchia. Non vi riuscì Mussolini in un epoca molto più facile da questo punto di vista. Un sistema, per così, oligopolista: dove pochi Paesi sviluppati si contendevano il predominio del Pianeta. Figuriamoci cosa possa accadere oggi, quando il peso del nostro Paese, correggendo il suo reddito per il diverso potere d’acquisto, è pari solo all’1,91 del totale. Negli anni ’30, “quota ’90” stese intorno all’Italia un cordone sanitario che ridusse i contraccolpi della grande crisi, che in Germania portarono alla distruzione della Repubblica di Weimar. Ma nel medio periodo si tradusse in un disastro. Come mostrarono i successivi eventi bellici. Eppure, quanto ad “intelligenza” l’Italia non era seconda a nessuno. Basti pensare a Italo Balbo, che fu il primo a sorvolare l’Atlantico, con una squadriglia di idrovolanti. Grande impresa, ma la guerra moderna, che implicava un potenziale industriale che l’Italia non aveva, era un’altra cosa.
Questi riferimenti storici dovrebbero far riflettere i tanti che parlano un po’ a vanvera. Che sognano primati inesistenti: forieri solo di un drammatico risveglio. Nel tempo che resta da oggi alle elezioni è necessario, quindi, che si usi il cervello. Che ci si spacchi la testa con il puzzle italiano alla ricerca delle possibili soluzioni. Che non sono il frutto della genialata del singolo. Serve anche quella. Ma del progressivo strutturarsi di un pensiero collettivo, che prepari l’intera società italiana ad affrontare i veri problemi che le sono di fronte. Perché alla fine il giusto equilibrio tra sviluppo, riequilibrio finanziario e lotta contro le “vecchie e nuove povertà” si può trovare solo con il supporto attivo di un’adesione popolare consapevole. Senza la quale non c’è nemmeno più la semplice possibilità del “tirare a campare”. Game is over.