In un momento storico così complesso e interessante vale sempre la pena tornare e ritornare a riflettere sulla questione Europa. Un tempo, infatti, l’unità politica del nostro continente era un sogno, una grande aspettativa, mentre oggi si presenta come un problema e talvolta perfino come un incubo. È veramente fallito il progetto più ambizioso del Dopoguerra, oppure qualcosa è cambiato nel modo di considerare noi stessi?
Questo è primo punto interessante da considerare. In effetti, esso chiama in causa ben più del destino di istituzioni sentite come lontane, fatte di uffici e burocrazia, ma sollecita una considerazione sistematica intorno ai rapporti costitutivi che legano tra loro singole persone, cittadini vecchi e nuovi, nonché Stati sovrani di lunga tradizione nazionale e identità più vaste di tipo culturale.
Se si guarda alla storia dell’Occidente, si incontra subito l’Europa e il Mediterraneo come luogo di elezione. E se si va un pochino in profondità si coglie subito il fatto che quello che diventerà il nostro continente non è mai stato né una nazione e tanto meno una civiltà univoca con un’identità netta e assoluta. Intanto vi è la tradizione greco-latina, fatta di filosofia, di arte e di diritto. La Pax romana certamente ha svolto un ruolo imprescindibile, creando un’unità politica di tipo statuale, attorno alla figura dell’Imperatore, vera e propria divinità politica.
Ma questo elemento di potere simbolico e reale non esaurisce per nulla quello che siamo. Accanto ad esso si è insediato il Cristianesimo che ha dato all’Europa una forma nuova, in continuità con la vecchia. Non soltanto lo Stato non era più assoluto e divino, perché esisteva accanto ad esso la Chiesa, ma con il disfacimento dell’Impero sono subentrati popoli nuovi, che hanno creato nuovi regni e nuove unità politiche.
Se volessimo identificare il carattere essenziale che determina l’Europa medievale, dovremmo certamente cogliere questo nesso tra politica e religione, una dualità che nel particolarismo caotico del primo millennio ha creato un equilibrio, grazie al quale il potere universale e quello particolare, la verità umana e quella giuridica, varie identità strutturate a diversi livelli si sono compenetrate e mescolate tra loro nella comune cristianità. Poi con la modernità, conflitti religiosi e nascita degli Stati nazionali hanno perfezionato, e in parte eroso, questa identità policromatica dell’Europa.
I veri nemici dell’Occidente non sono stati, tuttavia, gli assolutismi e le guerre intestine, ma i totalitarismi. Il nazismo nel cuore del continente e il comunismo sovietico in Oriente, nonché un certo individualismo espanso nel Nuovo Mondo hanno sabotato e incrinato gli antichi equilibri, arrivando fino all’odierna situazione di crisi. Il nemico della nostra Europa di oggi è lo stesso del Novecento: il crescere smisurato del potere politico a danno di un suo più equilibrato ed etico limite antropologico.
Perciò l’Europa è entrata in fibrillazione. L’Unione monetaria e poi l’unità strettamente governativa di Bruxelles hanno optato per una versione contraria alla stessa tradizione europea, la quale prevedeva invece che la soluzione non potesse e dovesse passare per una divinizzazione uniformante del potere centrale, ma in una più intelligente e sussidiaria declinazione di generale e particolare nel contesto concreto delle società.
L’eccesso di potere centrale ha fatto esplodere l’attuale recrudescenza democratica e populista dei nazionalismi, i quali, sebbene mossi da una legittima resistenza al culto del dio-unione, tuttavia rischiano con gli accenti sovranisti oggi di moda di determinare una nuova e aberrante forma di politeismo delle comunità sclerotizzate. In questo senso, la linea europeista deve seguire due traiettorie, entrambe contrarie all’attuale assetto dell’Unione. In primo luogo ripartire dalla identità comunitaria dei popoli, che non sono sovrani ma reali, che non devono chiudersi ma riconoscersi, che non sono sostanze divine ma congregati di persone e società. In secondo luogo evitare in tutti i modi di costruire l’Europa solo sulla politica, perché essa ha una forza e un’importanza rappresentativa, ma non è esaustiva della verità di una tradizione e neanche della vita stessa dei cittadini.
Ritrovare l’Europa significa, in definitiva, parlare di un continente dal punto di vista della sua identità reale, che chiama in causa anche un Cristianesimo non inteso come confessione di credenti ma come modello culturale di base da cui proviene anche la sovranità degli Stati e la loro funzione limitata e ordinata. L’Europa può diventare uno Stato unito politicamente solo se pensa se stessa come un composto di Stati. E tale aggregato policromatico può avere una sua funzione effettiva soltanto se non si trasforma in una lotta di potere interna alle particolari comunità, ma considera se stesso in riferimento a un contenimento etico del potere e a una sua finalizzazione superiore degli interessi parziali nei diritti supremi dell’uomo occidentale e della pace internazionale.
L’Europa prima di essere uno Stato politico è una verità sull’uomo, è il bacino di un umanesimo da sempre culla del diritto naturale e della libertà, luogo e territorio nel quale pluralità e differenze si coniugano con una universalità che non schiaccia ma riconosce, che non costringe e dissangua ma aiuta e favorisce il mondo intero. Se pensassimo da europei, avremmo l’Europa, senza paure e ossessioni. Se invece continuiamo a pensare in modo asiatico e orientale, concependo la politica come sfera sacra che tutto compie e tutto abbraccia, possiamo essere certi che l’Europa non sopravvivrà al nostro tempo, e forse neanche noi.