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Alla riscoperta del conservatorismo con Giubilei e Scruton

Il pregiudizio secondo il quale l’Italia è un Paese nel quale non c’è nulla da conservare, ha prodotto la repulsione della dottrina politica conservatrice come se fosse una malattia da combattere tenacemente. Eppure fior di conservatori (studiosi, scrittori, giornalisti) hanno avuto cittadinanza in Italia, magari non professandosi per ciò che erano, e influenzando il pensiero nazionale. A parte il fatto che in Italia c’è molto da conservare e se tale consapevolezza prevalesse nella discussione pubblica e nelle decisioni politiche forse staremmo tutti meglio, non si capisce perché aborrire una tendenza culturale che potrebbe partorire perfino un movimento politico come ce ne sono tanti in Occidente con caratteristiche conservatrici, per quanto differenti riconducibili a una sostanziale univoca visione della vita e della storia. È questa considerazione che suggerisce, a prima vista, il bel libro di Francesco Giubilei, Storia del pensiero conservatore (Giubilei Regnani editore, pp. 592, € 22) nel quale all’esame degli autori che hanno costruito il conservatorismo dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni tiene dietro un’analisi approfondita del dipanarsi di un’idea nelle diverse aree nelle quali ha assunto dimensioni rilevanti a cominciare da quella anglosassone.

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Rifacendosi a Giuseppe Prezzolini, il più noto dei conservatori italiani del Novecento, Giubilei mette in risalto la differenza tra il vero conservatore e i vari reazionari, retrogradi, tradizionalisti, nostalgici perché il primo, come diceva il fondatore de La Voce, “intende ‘continuare mantenendo’, e non tornare indietro e rifare esperienze fallite. Il vero conservatore sa che anche a problemi nuovi occorrono risposte nuove, ispirate a principii permanenti”. È proprio questo che manca a uno schieramento che pur si propone di contestare il progressismo e la concezione determinista e relativista dominante. Ed è una mancanza che discende da quell’antico stupido pregiudizio secondo il quale nulla è da conservare e tutto è da innovare magari sulle rovine senza averle prima rimosse.

Il saggio di Giubilei, ponderoso e ricco di citazioni, riferimenti e rimandi a numerosissimi autori è un utile “prontuario” per chi volesse abbeverarsi alle fonti di un pensiero negletto e scoprire, magari con stupore che la modernità che aspira a consolidarsi e diventare elemento permanente nella storia delle nazioni è radicata più di quanto si possa immaginare nella tradizione; diversamente è soltanto una parola vuota (come purtroppo constatiamo) destinata a perire con le illusioni che accende.

Insomma, non ci si può liberare da ciò che è imperituro e costituisce il fondamento della civile convivenza nullificando i principi del diritto naturale. Secondo i conservatori, scrive Giubilei, “il rischio che si corre in una società – come quella contemporanea – sono non solo messe in discussione ma progressivamente eliminate l’autorità della famiglia, della religione, della comunità locale a favore di una immaginaria libertà, il risultato è il prevalere del caos e la perdita di riferimenti sociali”.

A pensarla così è un autentico maestro del conservatorismo contemporaneo, il britannico Roger Scruton secondo il quale “l’indole conservatrice è una proprietà acquisita delle società umane ovunque esse si trovino”, come scrive nel suo Essere conservatori (D’Ettoris editori, pp.294, € 20,90), un libro che, con la prefazione di Oscar Sanguineti, costituisce la sintesi aggiornata della riflessione politica che il filosofo va svolgendo dagli inizi degli anni Settanta il cui  conservatorismo  è diventato riferimento culturale anche per chi lo avversa, riproponendolo alla luce della modernità, e dunque innestandolo tra le idee correnti sia per confutarle, quanto per “ibridarle” senza tuttavia venire meno agli insegnamenti di Burke, ma rendendo più percepibile un movimento che si riteneva appiattito esclusivamente sulle politiche thatcheriane e reaganiane.

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Essere conservatori dimostra la capacità di Scruton di rilanciare le tematiche conservatrici non come sterile sfida alla modernità, ma soprattutto nella prospettiva di costruire un progetto esistenziale e politico su cui rifondare l’Occidente del quale, in questo “essere conservatore” mette alla berlina, rileva  i “vizi” che lo stanno portando  alla dissoluzione. Scacciando la tentazione di lanciare crociate fideistiche, ma affidandosi ad un appassionata diagnosi culturale, Scruton passa in rassegna tutto ciò che non va nel vecchio Occidente per potersi difendere e proporsi ancora come motore di storia. Scrive: “Il conservatorismo che io professo afferma che noi, in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci di conservarle”. La tradizione, la concezione organica della società, la ricostruzione di una comunità fondata su valori non negoziabili. Alle classi dirigenti  Scruton si rivolge, implicitamente,  esortandole a favorire lo studio della cultura e dell’eredità europea a fronte del globalismo che minaccia di distruggere le specificità e le differenze. E ribadisce che lo Stato-nazione, dato per morto dagli universalisti, è la garanzia primaria dell’ordine civile, politico e culturale verso il quale tendere. Così come non si può prescindere dal restaurare la concezione della bellezza a fronte di una tecnologia invasiva e totalitaria. L’indole conservatrice, sostiene, “è una proprietà acquisita delle società umane ovunque si trovino”. Disperderla, come sta avvenendo, è un crimine contro noi stessi.

Così come un “crimine” è la dissoluzione delle nazioni che Scruton ha denunciato in un altro magistrale saggio apparso un po’ di tempo fa: Il bisogno di nazione (Le Lettere, pp.97, € 10), contributo rilevantissimo alla riscoperta dell’idea di nazione in chiave democratica e come elemento fondante il governo del popolo costituzionalmente riconosciuto da coloro che vivono su uno stesso territorio e nutrono un attaccamento al sentimento dell’appartenenza, al di là dei fattori etnico-religiosi che contribuiscono la falsare la nozione stessa di nazionalità esaltando piuttosto il tribalismo e l’intolleranza.

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Scruton  sostiene che le democrazie devono proprio alla fedeltà nazionale la loro esistenza e allo Stato che in essa si riconosce lo strumento giuridico deputato a difendere le libertà personali e la sovranità collettiva. Perciò le istituzioni sovranazionali che abusano del potere di delega, minacciano seriamente l’indipendenza dei popoli e allo Stato nazionale, che pure ha bisogno di essere migliorato nelle sue strutture, non v’è alternativa a meno di non voler diventare genti prive di autonomia e spodestate delle prerogative storico-territoriali che ne hanno legittimato l’esistenza. A cominciare dal principio di cittadinanza, “dono principale delle giurisdizioni nazionali”, scaturita dalla relazione tra lo Stato e l’individuo, sulla base del riconoscimento che il secondo mostra nei confronti delle leggi emanate dal primo. È questo il fondamento di un costituzionalismo repubblicano, includente e condizionante allo stesso tempo, che s’ispira alla logica della responsabilità dichiarata dal “noi” e, dunque, ostile all’ “io” come imperativo egoistico. Lo Stato nazionale europeo – osserva Scruton – emerse quando l’idea di comunità definita partendo da un territorio venne iscritta in sistema di sovranità e di leggi. Dunque, “è vitale al senso di nazione l’idea di un territorio comune nel quale ci siamo tutti insediati e che tutti abbiamo identificato come la nostra casa”. Per questo motivo “la fedeltà nazionale è fondata sull’amore per un luogo, per le usanze e le tradizioni che sono state iscritte nel paesaggio e nel desiderio di proteggere quelle cose belle attraverso leggi comuni e una comune fedeltà”.

Insomma, come sottolinea Francesco Perfetti nell’introduzione al volume, la suggestiva difesa della nazione da parte di Scruton, è una lezione di sano realismo in tempi in cui l’avversione dello Stato nazionale e, più in generale, il rifiuto della stessa idea nazionale sono largamente diffusi e riflettono uno stato d’animo che Scruton definisce “oicofobia” cioè la tendenza che in qualsivoglia tipo di conflitto  si denigrano usi, costumi, istituzioni , cultura “nostri” ripudiando così la lealtà o la fedeltà nazionale, prendendo sempre e comunque le parti di organismi trasnazionali  supportandone  le direttive, come capita, per esempio, quando  si sostengono sempre e comunque le decisioni dell’Unione europea o delle Nazioni Unite.

L’appassionata difesa della nazione Scruton la completa con un lucido atto d’accusa allo “Stato mercato” che concepisce il legame tra cittadino ed istituzioni come un contratto dal quale il primo si attende benefici in cambio di obbedienza. E’ l’anticamera del totalitarismo moderno. Il trionfo del relativismo culturale applicato alla sfera della politica. Il bisogno della nazione implica coscienza identitaria e cultura dell’appartenenza. Su questi pilastri si reggono comunità capaci di affrontare le minacce del dispotismo e dell’anarchia.


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