Il problema dei sovranisti de’ noantri è che non conoscono la storia (nella categoria comprendiamo anche quelli che risiedono fuori dai confini dell’Italia). Se avessero avuto una qualche idea di come l’America si è atteggiata nella politica internazionale, in particolare verso l’Europa, nel Ventesimo secolo (il “secolo americano” per eccellenza) a prescindere da chi la guidava, sarebbero stati quantomeno più cauti nell’esternare la loro soddisfazione per l’elezione di Donald Trump. Il neopresidente è soltanto la proiezione delle speranze (e delle insoddisfazioni) dei sovranisti occidentali che, se fossero veramente tali, capirebbero che le amministrazioni americane non hanno la benché minima intenzione di mutare la loro politica in riferimento al ruolo che si sono assegnate (e guadagnate). Altro che “isolazionismo”.
Ma davvero qualcuno immaginava che Trump avrebbe stravolto le dinamiche espansionistiche degli Stati Uniti relegando il Paese nel recinto dell’irrilevanza? Se anche l’avesse pensato (e non è così: “America first”, vorrà pur dire qualcosa benedetti sovranisti europei!) non glielo avrebbero consentito. Trump – diciamolo chiaro e tondo – è, sia pure a suo modo, un uomo dell’establishment, è la punta di diamante (come lo sono stati i suoi predecessori) della prima potenza mondiale che non vuole per nessuna ragione al mondo rinunciare ad esserlo. Il complesso industriale e militare statunitense, che non ha riferimenti politici esclusivi, ma è esso stesso potere governante, non deve usare la forza per imporre a chicchessia l’inquilino della Casa Bianca comportamenti funzionali al mantenimento dell’ordine americano. E se, talvolta, accade che ciò venga messo in discussione nel gabinetto ristretto presidenziale, non c’è bisogno di un grande lavorio per riportare sui binari della “normalità” l’amministrazione. In pochi giorni, e sorprendendo il mondo (ma non chi ha uso della politica internazionale) ha licenziato coloro i quali contraddicevano la dottrina alla quale gli USA si sono conformati dagli inizi del Novecento ed ha chiamato a sé consiglieri e generali che avrebbero potuto lavorare tranquillamente con Obama, con Bush, con Reagan, con Kennedy.
“America first”, non è uno slogan vuoto ed altisonante utilizzato per attrarre le delle masse elettorali: è un programma politico condiviso da chiunque. La differenza con alcuni dei suoi predecessori è che Trump l’ha sbandierato confondendo i “nazionalisti” europei (che si sarebbero dovuti preoccupare) i quali hanno creduto che la “sponda” americana li avrebbe in qualche modo legittimati. Un errore però fortunatamente senza conseguenze data l’irrilevanza degli stessi agli occhi dell’amministrazione statunitense. Sorprendersi adesso dell’attacco in Siria e della sostanziale rottura delle relazioni con Putin (anche su questo punto si sono costruite leggende ad uso e consumo della propaganda contro i due leader) equivale ad ammettere un abbaglio che potrebbe pregiudicare le fortune dei sovranisti europei.
In Siria, dovrebbe essere chiaro a tutti, si combatte una guerra sbagliata per ciò che attiene all’obiettivo. E l’Europa dovrebbe esserne consapevole più di ogni altro soggetto. Assad non è uno stinco di santo, come tutti sappiamo. Ma è ancora il male “necessario”: se levasse le tende improvvisamente, lo Stato islamico dilagherebbe nella regione con l’appoggio (palese o occulto ha poca importanza) dell’Arabia Saudita e di tutto il mondo sunnita che non aspetta altro. Nel cuore del Mediterraneo si costituirebbe davvero un potente Califfato che minaccerebbe da vicino l’Occidente ben più di quanto sta facendo con gli attacchi terroristici che ispira e finanzia.
L’America – come in tante altre occasioni: ricordiamo i disastri provocati in Iraq ed in Afghanistan, a tacere delle “primavere arabe” – non si rende conto, ed è questo il suo punto debole, che il regime siriano per quanto deplorevole, è al momento indispensabile per resistere ed abbattere le tentazioni di Abu Bakr al-Baghdadi. Questo non trascurabile particolare Putin lo ha compreso, Trump ed i suoi strateghi no. Perciò quando si dice che la reazione statunitense (peraltro non autorizzata da nessuno: si ripropone l’interrogativo sulla inutilità dell’Onu) è stata “proporzionata” alla strage perpetrata giorni prima con i gas nervini (le prove che l’ordine sia stato impartito da Assad ancora non sono state esibite, comunque: sembra di rivedere il film iracheno sulle armi di distruzione di massa mai trovate e su cui Usa e Gran Bretagna fondarono la pretesa all’intervento), è quantomeno azzardato dal momento che l’azione militare, peraltro piuttosto sgangherata, non ha intaccato il potere di Assad, mentre ha prodotto la rottura nella coalizione antiterrorismo per la gioia dei jihadisti del Califfo. “Proporzionata”, allora, in che senso? La distruzione di un hangar malmesso e qualche militare ucciso sono i risultati annoverabili tra i successi di una grande potenza che non ha voluto vendicare un eccidio, ma soltanto mandare un segnale all’antagonista di sempre per fargli capire che laggiù anche l’America, proprio perché “first” vuole starci e da protagonista.
Se Trump avesse voluto colpire gli obiettivi strategici e politici del regime di Damasco ci avrebbe provato: Assad non è immortale e lo si può attaccare pur senza sfiorare i confini siriani.
L’ipocrita e tragica commedia che va in scena nella martoriata regione avrà un solo esito: un mondo ancor più insicuro. Da Stoccolma la risposta non si è fatta attendere. La guerra fredda è improvvisamente tornata e si è fatta gelida. Tutti contro tutti in attesa del prossimo camion si abbatterà sulla folla inerme o di una qualche bomba che esplode in una qualsiasi metropolitana. Intanto le fiamme del caos siriano si levano sempre più alte. La pacificazione non è mai stata tanto lontana e a Raqqa i muezzin ringraziano Allah per avergli mandato nemici tanto negligenti.