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Piero Ottone custode di Oswald Spengler

Qualche sera fa ricordavo Piero Ottone, nel corso di una conversazione telefonica, con il mio amico Francesco Damato. La sintesi di ciò che si siamo detti è finita nell’elegante e toccante articolo che Francesco ha dedicato ieri all’ex direttore del Corriere della sera spentosi pochi giorni fa. Mi ha commosso la citazione, generosa ed affettuosa, del mio rapporto “spengleriano” con Ottone che Damato ha ritenuto di riferire. Proprio così, “spengleriano”. Potrà sembrare bizzarro che due persone, appartenenti a generazioni diverse e dalla formazione culturale assai dissimile, ad un certo punto della loro vita abbiano, “per caso”, trovano una sintonia nel considerare la decadenza riferendosi entrambi ad una comune “stella polare”. Oswald Spengler, appunto.

Ottone era un profondo studioso del grande morfologo della storia tedesca del quale era capace di citare a memoria brani della sua opera più importante, Il tramonto dell’Occidente, nella sua lingua. Restai colpito ed affascinato anni fa, nel corso di una colazione che non dimenticherò più, quando il discorso cadde appunto su Spengler. Ed ancor più rimasi ammirato dalla naturalezza dei riferimenti al grande pensatore che Ottone faceva come se parlasse di un contemporaneo. Aveva ragione: Spengler è nostro contemporaneo per chi sa comprenderlo. La conversazione andò avanti a lungo. Temevo che si annoiasse e soltanto la cortesia lo facesse indugiare su un autore che mi stava particolarmente a cuore. Non era così. La visione della storia di Spengler era per Ottone la “chiave” per comprendere la modernità e soprattutto la crisi della nostra civiltà.

La sua idea, da me ampiamente condivisa, con una frequenza piuttosto insistente, la “offriva” ai suoi lettori i quali si saranno, credo, chiesta la ragione di quella che Ottone stesso riteneva una sua personalissima “ossessione”. E la spiegazione venne con il suo ultimo articolo, nel novembre dello scorso anno, pubblicato sul Venerdì di Repubblica nel quale, con lo stile che gli era proprio, prese congedo da chi per trent’anni lo aveva seguito in quello spazio settimanale ricco di suggestioni, annotazioni culturali, valutazioni sociali, politiche e di costume.

Scusandosi per non aver alimentato adeguatamente la rubrica “Vizi e virtù” nelle ultime settimane, informava che probabilmente non avrebbe più scritto. La ragione era semplice: l’età. E lui, per quanto in ottima forma, la sentiva terribilmente. Poi aggiunse: “Nelle mie rubriche ricorreva una nota frequente, un riferimento esplicito o implicito ma costante: una monomania che aveva un nome, Oswald Spengler, studioso tedesco autore di Untergang des Abendlandes, Il tramonto dell’Occidente”.

Rendendosi conto che i lettori potrebbero essersi annoiati, quasi si scusava motivando il suo attaccamento a Spengler: “Sarà pure una barba, una specie di monomania, ma gli eventi di questi anni confermano con una puntualità sorprendente la sentenza del tedesco e le sue previsioni. Anche la nostra civiltà, dopo le sei o sette che l’hanno preceduta, sta dando segni molteplici e siamo proprio al termine della corsa, specie con quello che vediamo in questi mesi”. Ed aggiungeva: “La civiltà occidentale, l’ultima della serie (almeno per ora) sta finendo malamente e se ce ne fosse un’altra si tratterà di civiltà completamente diversa da quelle che l’hanno preceduta, attraverso alcuni millenni. Le conquiste della tecnica non sono una contraddizione della crisi che espongo”. E qui il riferimento implicito ad un’altra magistrale opera spengleriana è assolutamente pertinente: in Der Mensch und die Technik, L’uomo e la Tecnica, il filosofo asseriva proprio quanto Ottone sottolineava sul rapporto tra la civiltà e lo sviluppo tecnologico prodotto dall’uomo “faustiano” purtroppo nella fase discendente della civiltà.

Un congedo atipico, inusuale, assolutamente “alto”; quasi un omaggio a chi ne ispirava i pensieri. Il titolo dell’ultimo articolo di Piero Ottone era un monito: “Arrivederci lettori, ma ricordate Spengler ancora una volta”.

Ottone è stato un innovatore del giornalismo italiano. E’ stato tra l’altro ricordato per aver portato Pier Paolo Pasolini, altro straordinario critico della modernità, sulla prima pagina del Corriere della sera: a modo suo un “aristocratico” che probabilmente non aveva mai letto Spengler, ma curiosamente a lui prossimo in tante valutazioni sulla decadenza.

Il tempo è galantuomo, anzi è un “grande scultore” come dice Marguerite Yourcenar. E’ in grado di regalarci assonanze insospettabili attraverso “mediatori” altrettanto insospettabili ma soltanto se questi sanno leggere il presente illuminato dalla storia.

Mi piace credere che Piero Ottone si sia spento – rammaricandomi per non avergli più telefonato da tanto tempo – avendo negli occhi e sulle labbra la frase di Seneca in una lettera a Lucilio (che credo aleggi nel suo ultimo libro sulla vecchiaia) con la quale Spengler chiudeva Il tramonto dell’Occidente: “Ducunt volentem fata, nolentem trahunt”.


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