Il giornalismo italiano della prima metà del secolo scorso ebbe numerosi protagonisti ormai quasi tutti dimenticati. Tra i più noti, celebrati ed amati ricordiamo Luigi Barzini senior (per distinguerlo dal figlio Luigi, grande giornalista anche lui) e Mario Appelius. Entrambi, sia pure in maniera diversa, inaugurarono uno stile nuovo nel concepire il reportage che fino al loro apparire quasi non esisteva se non come descrizione accademica, per lo più di carattere culturale, di eventi e personaggi della cronaca.
Tanto Barzini quanto Appelius vissero, benché separatamente, la loro professione a cavallo tra due epoche il cui spartiacque fu la Prima guerra mondiale. L’avvento del fascismo, in modo casuale ed in una certa misura “necessitato”, li vide al fianco del regime sia pure con quell’atteggiamento tipico di chi prendeva atto della realtà, rimanendone perfino soggiogato, ma non con la passione ideologica di altri giornalisti e scrittori, per non parlare degli intellettuali, per i quali diventò doveroso l’omaggio al Duce anche quando non era espressamente richiesto. Barzini e Appelius furono innanzitutto onesti avventurieri che s’inoltrarono nelle vicende più pericolose e percorsero i sentieri più sconnessi del globo al solo scopo di raccontare vite, sentimenti, costumi, guerre e rivoluzioni, accadimenti naturali e tragedie umane, con lo spirito di autentici esploratori; contribuirono così allo sviluppo della conoscenza da parte dei lettori italiani che dalle pagine del Corriere della sera e da quelle del Popolo d’Italia cominciarono a prendere dimestichezza con realtà nuove, spesso in fermento, quasi sempre anticipatrici di movimenti che avrebbero segnato la storia dell’umanità. Alla “piccola Italia” degli anni pre-bellici ed ancor più di quelli che seguirono, le narrazioni di Barzini prima e di Appelius poi dischiusero un’umanità che fino ad allora era stata materia per fantasiosi e geniali romanzieri capaci di affascinare un piccolo pubblico (considerato l’analfabetismo piuttosto consistente dell’epoca) con esotismi fascinosi e non sempre irreali.
La biografia di Simona Colarizi, Luigi Barzini (Marsilio, pp.220, 16,50 euro) e la riproposizione dopo più di ottant’anni dell’autobiografia romanzata di Mario Appelius, Da mozzo a scrittore (Oaks editrice, pp.317, 24,00 euro), ci consentono di togliere la polvere su due personaggi che avrebbero meritato maggiore fortuna dopo la loro morte.
Indro Montanelli e Giuseppe Prezzolini sono stati tra i pochi, a ricordare Barzini. L’allora direttore de Il Giornale, celebrandolo nel centenario della nascita (1874), lo definì “il più grande maestro italiano del reportage”, mentre per il fondatore de La Voce, l’inviato davvero speciale che attraversava il mondo come le strade di Milano “stava tra il telegramma e la storia: lo stile del giornalista perfetto”. Ad Appelius è stata dedicata ancor meno attenzione. A parte alcune biografie di Livio Sposito (che firma la prefazione a Da mozzo a scrittore), Ada Gigli Marchetti e Gianluca Frenguelli con Chiara Grazioli, di lui resta, come un grido di battaglia, la famosa invettiva bellica: “Dio stramaledica gli inglesi”. Un po’ poco per chi ha avuto il merito di far conoscere attraverso i suoi scritti, tutt’altro che sguaiate apologie del regime come si conveniva al tempo, in “presa diretta” civiltà e tradizioni lontane con uno stile avvincente almeno quanto lo era quello di Barzini.
La Colarizi, dedicandosi a tratteggiare la figura del celebre giornalista con un andamento “romanzesco” si potrebbe dire, che rende la lettura gradevolissima, si concentra, con un espediente letterario originale, sugli ultimi giorni di Barzini, i primi del settembre 1947, immaginandolo nell’indigenza e nella solitudine più totali, gravemente ammalato, nel ripercorrere le tappe della sua vita intensa e tumultuosa. Ne viene fuori un ritratto in chiaroscuro emblematico della condizione di un uomo fuori dal comune in un tempo difficile nel quale era piuttosto problematico scegliere da che parte stare. Barzini, rompendo il suo sodalizio con l’uomo che lo aveva “inventato” come giornalista ed aveva creduto in lui fin dal primo momento, si “scoprì” fascista non tanto per assecondare una vocazione politica (che in verità poco sentiva), quanto alla ricerca di una gloria (che poi avrebbe scoperto effimera) che poco gli diede in termini economici (il suo assillo maggiore, oltre quello della scrittura e del mestiere che lo assorbiva totalmente) e molti problemi gli creò prima, durante e dopo il fascismo. Era un nazionalista come tanti altri e lo viveva senza il pathos ideologico (del quale non gli importava niente) di quanti si avvicinarono a Corradini, a Federzoni, a Rocco condividendo quello che, insieme con il sindacalismo rivoluzionario, fu il fondamento del fascismo.
Barzini dopo aver lavorato in testate minori, al Capitan Fracassa e al Fanfulla, approda al Corriere della sera nel 1899, assunto come “redattore viaggiante”. Il suo campo d’azione è il mondo. Dovunque c’è qualcosa da vedere e da documentare arriva lui: da Londra a Parigi per l’Esposizione universale del 1900 a Pechino da dove racconta la rivolta dei Boxer, al Golfo del Bengala. E poi in Siberia, nei Balcani, in Messico, nell’Africa del Nord, nell’estremo Oriente dove si combatte la guerra russo-giapponese. E poi la partecipazione al famoso raid Pechino-Parigi che lo consacra non solo in Italia, ma ovunque in Occidente dandogli una fama sulla quale costruirà la sua incerta fortuna anche dopo la fine del rapporto con il “Corriere della sera” e la fondazione a New York di un quotidiano che sarà la sua rovina, come tutto il più che decennale soggiorno americano punteggiato da crisi professionale e familiare.
Dall’avventura del viaggio che lo rese famoso, Barzini si scopre scrittore di vaglia. Da esso infatti trae un libro che diventerà famoso in tutto il mondo: La metà del mondo vista da un automobile. Da Pechino a Parigi in sessanta giorni, pubblicato nel 1908 contemporaneamente in undici lingue. Per l’editore Hoepli fu un “raid editoriale” oltre che automobilistico.
Nella sua lunga carriera al Corriere (1899-1921), Barzini è testimone del devastante terremoto di Messina del 1908 e di sei guerre, la più importante delle quali fu la Guerra mondiale per la quale seguì, in particolare, la disfatta di Caporetto, ma per come la descrisse ebbe più guai che allori. Da lì cominciò in qualche modo il suo declino.
Nella vita di Barzini, la Colarizi scava profondamente. Non manca di analizzare i travagli americani, il ritorno in Italia, la breve direzione del Mattino di Napoli, le frustrazioni derivanti da non aver potuto afferrare la direzione del Corriere, la sua partecipazione in secondo piano alla corte di Mussolini, la nomina a senatore del Regno, l’assunzione al Popolo d’Italia per il quale seguì la guerra di Spagna. Alla minuziosa descrizione della carriera, la storia inframmezza le vicende personali dell’uomo angosciato dalla ricerca di sostentamento per sé e la famiglia dal momento che il tenore di vita era molto alto, almeno quanto la fama di giornalista e scrittore. Fu la sua disfatta aggravata dal non aver capito il figlio terzogenito, Ettore, morto a Mauthausen, dove venne internato dai nazisti. Il che non gli impedì di aderire alla Repubblica Sociale Italiana che molto avrebbe pesato nei due anni del dopoguerra che gli restarono da vivere e che impiegò nel difendersi dall’accusa di essere stato connivente con la Rsi. Il 31 luglio 1945 l’Alta Corte di giustizia lo condannò per la sua presidenza dell’Agenzia Stefani. Barzini perse il diritto ad esercitare la professione giornalistica.
Trascorse lo scampolo di vita che gli restava abbandonato da tutti, la moglie era già morta ed i figli dispersi qua e là, malato e povero. Si spense a Milano il 6 settembre 1947.
Non diversamente da Barzini anche Mario Appelius fu affascinato dall’impossibile. Raggiungere territori vasti e sconosciuti, inerpicarsi su sentieri mai battuti, sperimentare il pericolo e farne materia giornalistica e letteraria fu l’impegno della sua vita (1892-1946). Con uno stile che in breve tempo lo fece diventare non soltanto inviato di punta del Popolo d’Italia, ma soprattutto riferimento per chi voleva conoscere ciò che nessuno osava raccontare, Appelius si affermò come un giornalista-emigrante capace di raccontare gli italiani nel mondo ed il mondo agli italiani.
Aveva quarant’anni quando pubblicò Da mozzo a scrittore nel 1933. Era all’apice della carriera, con alle spalle una decina di libri nei quali si trovava ciò che fin da ragazzo aveva visto e vissuto, tra privazioni e gioie che l’avventura gli procurava. A Buenos Aires fondò il Mattino d’Italia che diresse per due anni (e gli sopravvisse per altri cinquanta). Lo lasciò spinto dalla vertigine del viaggio in luoghi nei quali non era stato nessuno. Livio Sposito, nella prefazione, ci informa che Appelius scrisse la sua autobiografia “perché pensava che da allora in poi non si sarebbe limitato a scrivere libri di viaggi, ma avrebbe dedicato la sua vita a un’opera di alta letteratura, al romanzo vero e proprio. Era questa la sua segreta ambizione”.
Il destino avrebbe deciso diversamente. La guerra si sarebbe abbattuta sulla sua vita come un fulmine. I suoi progetti si sbriciolarono in tempi brevissimi. Restavano le sue avventure a documentare non solo ciò che aveva visto, ma anche le vicende delle quali era stato in qualche modo protagonista. Il suo nome, vincendo per una volta la ritrosia provinciale che ci condiziona, può stare tra i grandi avventurieri-scrittori del secolo scorso come Jack London, Rudyard Kipling, Joseph Conrad. Del resto il mozzo che aveva lavato i ponti del “Sicilia”, che aveva percorso il Tonchino e l’Indocina, tra amori truffe e malattie, che aveva perfino fatto l’industriale a Khartum, il clochard a Parigi ma anche l’uomo d’affari, che in ventitré anni spesi nel mondo senza una meta, navigando pericolosamente accanto ai peggiori soggetti nel Mar Rosso come nel Mar della Cina, cos’altro poteva fare quando decise di trasformare la sua vita in un canovaccio letterario? Il giornalista, lo scrittore. Fu soltanto Arnaldo Mussolini, amministratore del Popolo d’Italia e della casa editrice Alpes, a credere in lui. E nacque una stella.
La guerra, come s’è detto, lo travolse. Si reinventò come giornalista di propaganda. Ma non fu insincero. Si rifiutò di negare la verità e cioè che le cose andavano male per l’Asse ed il ministero della Cultura popolare gli tolse il microfono cacciandolo da quella radio, dove aveva raggiunto picchi di popolarità straordinari, il 20 febbraio 1943.
Dopo la guerra venne processato per “apologia del fascismo” e condannato. L’amnistia gli evitò la prigione. Ma durò poco: si spense poco prima di Natale del 1946, consumato dalla vita errabonda e dalle molte malattie contratte per assecondare il suo spirito d’avventura e la sua fame di conoscenza.
Barzini e Appelius. “Miti” di un giornalismo eroico e romantico che guardiamo da lontano, perduto per sempre.