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Perché consiglio gli “Scritti selvaggi” di Giancristiano Desiderio

giancristiano desiderio

Che la vita sia una lotta incessante, una guerra crudele, una sfida continua con se stessi e con gli altri nella quale perfino chi alla fine s’illude di esserne uscito vincitore in realtà deve accontentarsi degli alibi che si crea per crederlo, non l’ha scoperto Giancristiano Desiderio. Ma a lui va il merito, in un contesto di trionfante ipocrisia e di conformismo insopportabile, non soltanto di professare questa antica verità, ma di rivendicarla in un libro “anomalo” e di una bellezza concettuale e stilistica come pochi se ne leggono al giorno d’oggi.

Fin nel titolo rivela l’indole che lo ispira: Scritti selvaggi. O della lotta che ci divora (Rubbettino, pp.230, 12,00 2uro). Ed è quasi un “regalo” che l’autore ci fa mettendo in chiaro la sua “filosofia del quotidiano”, assemblata riunendo gioie (poche) e dolori (molti) che l’esistenza ci propone senza tregua, in un tempo nel quale tutto sembra così evanescente da essere consumato con la rapidità con la quale si mangia un gelato o si ingurgita una bibita o si legge un romanzetto da quattro soldi, di quelli che vengono sfornati come vivande surgelate facendoli passare per letteratura. Un “regalo” alle intelligenze ed alle anime che sanno cos’è la sofferenza e l’amore , il conflitto ed il dominio, la sicurezza e la libertà, il sesso e il gioco, il bar dello sport ed i postriboli della politica, il calcio e la pizza. Di tutto questo e di altro ancora, graffiando e corrodendo, accarezzando e piangendo, ci parla Desiderio la cui vocazione filosofica ancora una volta (dopo averci dato libri di indubbio interesse oltre che piacevoli prove di scrittura, come la sua bellissima biografia di Benedetto Croce, la migliore sulla vita affettiva e intellettuale del grande abruzzese) si esprime “giornalisticamente” in ossequio alla professione che coltiva in piena libertà dopo averla imparata militando in prestigiose redazioni. Sarà per questo che alle domande fondamentali riesce a rispondere “selvaggiamente” senza concedere nulla al sonno della ragione, né alle sollecitazioni consumistiche di sentimenti destinati a durare il tempo di una rosa colta mentre sta già per appassire.

Sì, la vita ci divora. E noi non possiamo farci nulla per evitarlo. Raccontando della lunga malattia di sua madre, per esempio, Desiderio non si ritrae di fronte all’ammissione del dolore che prova frugando negli occhi ormai spenti della sua donna più amata: “C’è tanto dolore ma la vita senza dolore non è neanche un’illusione”. Neppure la più piccola giustificazione lo tenta perché sa che il Destino deve compiersi, come per tutte le cose ed in ogni tempo. Ed allora vitalisticamente accetta di assecondare quello che Nietzsche chiamava l’amor fati, l’accettazione di ciò che è stato stabilito:”Dobbiamo anche imparare ad amare lasciando andare”, dice con la consapevolezza di chi sa che non c’è alternativa all’adesione quasi carnale a ciò che per noi è stato scritto per quanto noi facciamo al fine di “eternizzare” noi stessi.

L’eternità è fuori di noi, è nell’altra vita per chi crede e perfino per chi non crede. Noi non abbiamo altro che il controllo e l’abbandono ai quali poterci affidare. Come un giocatore di football. Qual è l’azione più importante nel gioco del calcio (lo sottolinea lui, filosofo del pallone: ben tre saggi sull’argomento scrisse in giovanissima età)? Il controllo, l’arresto, l’addomesticamento della sfera di cuoio che arriva fortuitamente o da un passaggio volontario. Ma non basta: il secondo movimento, altrettanto importante, è l’abbandono della palla, il passaggio, il tiro. Ecco: la metafora della vita, come tante volte si è detto. All’uomo non è dato altro che esercitare il controllo su stesso: esercizio quanto mai in disuso di questi tempi; e abbandonarsi a quel che deve accadere dopo aver fatto ciò che umanamente la ragione ed il cuore gli suggeriscono. Nell’abbandono, in particolare, c’è il senso dell’esistenza, ma sembra che nessuno voglia prenderne contezza.

Questi scritti sono “selvaggi” perché il conflitto che sottendono tra pensiero e vita è ad altissima temperatura, quasi un’esplosione: “La vita risale al pensiero e chiede di essere compresa e risanata. E il pensiero, una volta compiuta la sintesi, si ridà in pasto alla belva che lo divora”. Non c’è via d’uscita. E Desiderio per asseverare non la sua tesi, quanto l’oggettivo punto di vista che propone alla considerazione del lettore sulla essenza della lotta furibonda con la vita, è molto più nietzscheano che crociano (e per me che lo conosco da sempre è sorprendente), ma anche adepto di quella “setta” in via d’estinzione che ritiene il fondamento del logos e, dunque, della conoscenza, nella filosofia greca, nei presocratici e in Platone. Ma tutto ciò è roba per accademici, si potrebbe pensare. E invece non è così. C’è molto di quel mondo ormai diventato ai più oscuro, dopo il trionfo della scolarizzazione di massa e dunque dell’ignoranza collettiva, nel pamphlet – se così si vuol considerare questo libro – che Desiderio ci propone come antidoto ai nostri deliri per comprendere come atteggiarci di fronte ad una lotta alla quale non possiamo sottrarci, perché è nell’ordine delle cose, che dobbiamo accettare pur sapendo che ogni sconfitta in realtà è “umana, troppo umana” e chissà se poi accogliendola come ineluttabile non diamo un senso vittorioso ai nostri quotidiani cimenti.

Del resto, ci fa capire Desiderio, la filosofia della forza è la quotidianità. Non immeschiniamoci andando a cercare ragioni laddove le ragioni non esistono o si sono rarefatte. Comprendere la realtà, dopotutto, significa tenersi legati alla terra: è il solo modo per tentare di conquistare un universo che non è poi tanto liquido ed evanescente, come da qualcuno si pretende che sia.

È questa la sola prospettiva alla quale possiamo aderire, dice il filosofo “selvaggio”, condividendo le contraddizioni che la vita stessa ci propone. I maestri del pensiero, gli “ortopedici dell’anima”, gli accademici che tutto sanno e niente risolvono sgombreranno le loro scrivanie da questi Scritti selvaggi, ma non si salveranno l’anima continuando a discutere intorno al “pensiero unico” che non prevede contraddizioni, per il quale tutto ha uno svolgimento inevitabilmente appagante. Per loro sono “selvagge” le considerazioni di Desiderio più prossime alla sensibilità comune che ad una intellettualità talmente sofisticata da aver perso il contatto con la quotidianità.

E da ultimo, chi avrà la pazienza di leggere questo libro, perfino sotto l’ombrellone, troverà alla fine la ragione che lo ha mosso. Un grande, straordinario amore per la libertà. Per la libertà del pensiero innanzitutto. Essa si respira in tutto il libro, insieme con un’ affollata compagnia: Platone e Parmenide, Nietzsche, Heidegger e Croce, centrocampisti, attaccanti, ali e portieri “caduti alla difesa”, come scriveva il sublime Saba, e perfino eroi di estasi domenicali vissute su poveri campi di calcio di periferia…

Insomma, un libro originale, nel quale l’approccio al disvelamento delle menzogne della modernità avviene nel modo più semplice possibile: raccontando ciò che siamo o potremmo essere se soltanto non ci lasciassimo avvolgere dalle rassicurazioni che vorrebbero allentare da noi il pensiero della nostra finitezza facendoci partecipi di un progetto che non saprei se più blasfemo o imbecille: guadagnare l’immortalità in questa vita, su questa Terra, in questi domini della materia. Non è così. Dal nichilismo si esce, osserva Desiderio, ma il nichilismo lascia il segno (e tutti ne rechiamo le cicatrici). “La ‘salvezza’ – dunque – è tutta terrena”. Sacrificarsi alla terra per raggiungere mete oltreterrene? È possibile. A patto che la si faccia finita con le finzioni appaganti per un breve tratto dell’esistenza. La libertà è tragica. Ma è essa il nostro destino. Il solo che abbiamo per diventare ciò che siamo. Ecco che Nietzsche ritorna nelle vesti di un “cristiano”, come ci fa capire Desiderio. Un cristiano tutt’altro che folle. I suoi scritti, dopotutto, non erano meno “selvaggi” per la morale corrente del suo tempo. E perciò scandalosamente veritieri, da mettere all’indice.


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