Le regole per evitare il crack dei Comuni italiani sono inefficaci e vanno cambiate. Lo dice il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, in un documento che analizza gli ultimi 28 anni di storia degli enti locali e riporta numeri impietosi. A partire dal 1989, l’anno dell’introduzione del dissesto degli enti pubblici, sono 556 i Comuni che hanno fatto ricorso alla procedura di default. Di fatto, sono falliti, contribuendo ad aggravare il quadro del debito pubblico nazionale. Per di più, in buona parte, provocando sui loro cittadini un aumento della pressione fiscale e una riduzione dei servizi erogati.
L’aspetto significativo dell’approfondimento dei commercialisti è che il trend fotografa una situazione in peggioramento, partito nel 2009 e non ancora fermatosi.
IL DISSESTO: PERCHÈ AI COMUNI CONVENIVA
Il dissesto, introdotto nel decreto 66 del 1989, subentra nel momento in cui un ente non è più in grado di fornire i servizi essenziali o è indebitato al punto da non riuscire a far fronte alle proprie pendenze. In questo caso, la legge impone una drastica riduzione delle spese e un aumento delle entrate, che si traducono – o meglio, si dovrebbero tradurre, come vedremo – in tagli ai servizi e aumento delle tasse all’aliquota massima. In cambio, questo prevedeva il decreto, lo Stato concedeva incentivi: in sostanza i Comuni dissestati potevano accendere mutui per il risanamento, e lo Stato contribuiva coprendo gli oneri di ammortamento. In pratica, il Comune “tappava i buchi” dei Comuni.
In questa fase, agli enti in difficoltà il dissesto era quasi conveniente, anche perché la normativa dell’epoca non prevedeva dei tempi definiti per completare il risanamento del Comune. Cioè in sostanza le amministrazioni dichiaravano il dissesto, accedevano agli incentivi, e poi non davano attuazione alle delibere. Spiccano, ad esempio i casi di Bernalda (Mt) e Ischia, che hanno dichiarato il default nel 1992 e nel 1993 e non hanno ancora completato la procedura. Insomma, l’Italia aveva nascosto la polvere sotto il tappeto, senza risolvere il problema.
Però si registrò un “boom” di dissesti: solo nel 1989 furono ben 124. A seguire, un lento calo, per arrivare, nei primi anni 2000, ai valori minimi.
Alcune leggi hanno cercato di porre rimedio al problema. Nel 1993 sono stati introdotto il termine massimo di 10 anni per completare il risanamento e un “controllore” nominato dal Presidente della Repubblica che redigesse un piano di estinzione delle passività. Negli anni a seguire i tempi si sono ulteriormente ristretti (oggi a 5 anni) e lo Stato ha imposto nuove misure: criteri di prelazione sul pagamento dei debiti, nuove procedure sulla definizione dei debiti stessi e altre.
La vera svolta è arrivata nel 2001, con la riforma Costituzionale, che ha sancito l’autonomia finanziaria degli enti locali. Ciò ha comportato l’eliminazione dell’incentivo che consentiva ai Comuni di risanarsi accendendo mutui a carico dello Stato. La stessa riforma, a partire dal 2011, ha stabilito che i Comuni possono sì accendere mutui per risanarsi, ma gli interessi devono pagarseli loro.
IL DISSESTO GUIDATO E IL PRE-DISSESTO
La maggiore autonomia finanziaria dei Comuni ha imposto la necessità di maggiori controlli, e nel 2011 è stata introdotta una nuova procedura, il “dissesto guidato”. Se la Corte dei conti ravvisa squilibri strutturali nella gestione finanziaria, le amministrazioni sono tenuti a presentare, entro tempistiche precise, un piano di risanamento che scongiuri il dissesto vero e proprio.
Uno strumento simile è il pre-dissesto, introdotto nel 2012 per evitare una proliferazione dei default che avrebbe inciso pesantemente sulla sostenibilità del debito pubblico italiano, già molto sollecitato in quella fase economica.
A differenza del caso precedente, è l’amministrazione a scegliere questa procedura. Di sua iniziativa deve presenta alla Corte dei conti un piano di riequilibrio finanziario pluriennale, che sospende la possibilità di avviare un dissesto guidato. La procedura prevede che i Comuni possano accedere al Fondo di rotazione, previsto apposta nel bilancio dello Stato. Si tratta di un “prestito” che i Comuni devono restituire allo Stato entro 10 anni.
I PARAMETRI DI DEFICITARIETA’
Per “diagnosticare” lo stato di crisi dei Comuni si utilizzano alcuni parametri, stabiliti dal Decreto ministeriale interno del 18 febbraio 2013. Questi parametri sono 10 e analizzano varie voci dei bilanci, per esempio la quota di residui attivi e passivi, in relazione, per esempio, alle entrate correnti. La normativa attuale prevede che gli enti che sforano cinque di questi parametri siano considerati effettivamente deficitari.
L’INEFFICACIA DEL QUADRO NORMATIVO
Tutte queste procedure, dall’individuazione dei parametri di deficitarietà al pre-dissesto, sarebbero dovute servire ad evitare il ricorso al dissesto. Il problema è che, a partire dal 2009, si evidenzia una crescita significativa degli enti “falliti”. Secondo il rapporto dei commercialisti, questa impennata sarebbe un sintomo dell’inefficacia del quadro normativo attuale. Lo scrivono chiaramente: “La definizione delle procedure di pre-dissesto non appare più sufficiente a evitare in modo puntuale la più grave situazione di default”.
LA PROPOSTA: ISTITUIRE UN RATING DEI COMUNI
“Queste prime evidenze sembrano mostrare un funzionamento imperfetto di tutta la catena di regole che dovrebbero prevenire il manifestarsi del default” prosegue il Consiglio dei Commercialisti. Che poi lancia le sue proposte: “Occorre rivisitare i criteri di deficitarietà semplificando il set dei parametri e concentrando l’attenzione sugli indicatori più significativi, in particolare quelli che indicano difficoltà strutturali nella riscossione delle entrate e nella gestione della cassa”.
La proposta prevede di istituire un “rating della salute finanziaria dei comuni” articolato su 3 livelli di rilevanza. Da ultimo, si sollecita un “rafforzamento dei controlli nei comuni con popolazione inferiore a 15mila abitanti”, quelli che registrano le sofferenze maggiori.