L’euro resta saldamente a quota 1,16 nonostante il lieve ribasso di ieri (-0,2% a 1,1643 dollari). “Il dollaro continua a sprofondare”, ha osservato Mati Greenspan, market analyst di eToro “non è solo Donald Trump a contribuire a questa discesa. L’incremento osservato negli anni precedenti era dovuto principalmente alla speranza che la Federal Reserve aumentasse i tassi di interesse. Ora che le aspettative iniziano a scemare, il dollaro sta ricominciando a cadere”.
Domani il comitato di politica monetaria della Fed dovrà dare qualche indicazione sulle sue mosse future. Ci sarà solo il comunicato ufficiale, senza la conferenza stampa della presidentessa Janet Yellen. I mercati ritengono comunque che il prossimo aumento del costo del denaro avverrà a dicembre, anche se non è escluso un rinvio.
Resta il fatto che la debolezza del dollaro sembra destinata a durare. Ne è convinto Joachim Fels, consulente economico globale di Pimco, che ha intitolato la sua ultima analisi La Vittoria di Trump. Fels osserva che la Casa Bianca e la maggioranza repubblicana non sono ancora riusciti a realizzare le promesse elettorali in materia di rilancio dell’economia, ma un successo l’hanno ottenuto: rendere il dollaro più competitivo.
Secondo Fels è bastato mettere fine al mantra pluridecennale “un-dollaro-forte-è-nel-nostro-interesse”, minacciando allo stesso tempo gli altri Stati di adottare politiche protezionistiche. Questa è la risposta di Washington alla guerra fredda valutaria che la Banca del Giappone, la cinese Banca del Popolo e la Bce hanno iniziato nell’autunno dell’anno scorso. In quel periodo la Banca del Giappone ha fissato il rendimento del titolo di Stato decennale allo 0% mentre i rendimenti stavano salendo a livello globale, aiutando così lo yen a deprezzarsi. La Banca del Popolo ha invece permesso allo yuan di svalutarsi più rapidamente nei confronti del dollaro a partire da settembre, mentre a dicembre la Bce ha introdotto «un taglio dei tassi invisibile» rimuovendo il tetto del -0,40% (pari al tasso sui depositi) per l’acquisto di bond, spingendo verso il basso i rendimenti delle obbligazioni europee.
La reazione di Trump non si è fatta aspettare: all’inizio dell’anno il consigliere per il Commercio, Peter Navarro, e il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, hanno cominciato a lanciare minacce non troppo velate di provvedimenti di tipo protezionistico. Da allora la Cina ha stabilizzato il valore dello yuan, la Banca del Giappone non ha modificato le sue politiche monetarie e la Bce ha rimosso l’ipotesi di tagliare ulteriormente i tassi.
Cambieranno atteggiamento ora che il dollaro continua a scendere? La risposta del consulente di Pimco è negativa. Per il semplice motivo che un intervento di questo tipo rischierebbe di innescare una risposta protezionistica americana. Fels non fa questo paragone, ma a ben vedere Trump starebbe usando i dazi come una sorta di deterrente nucleare: la sola possibilità di metterli in campo fa rigare dritto gli avversari. Piuttosto che avere a che fare con i dazi è meglio rassegnarsi a un dollaro debole, pensano europei, cinesi e giapponesi. Ecco perché, secondo Fels, dovremo abituarci al mini dollaro almeno fino a quando il Congresso non avrà approvato la riforma fiscale.
(Articolo pubblicato su Mf/Milano finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)