Cosa sarebbe accaduto se al referendum del 2011 sull’acqua pubblica avesse vinto il No? Oggi avremmo servizi idrici più efficienti? Non è facile rispondere a questa domanda, ma probabilmente sì, vista la dispersione dell’acqua nelle condutture idriche (a Roma del 44%, ma in alcuni luoghi si supera il 60%). La storia inizia nel novembre del 2009, quando il governo Berlusconi converte in legge il decreto Ronchi, dal nome del ministro per le Politiche Comunitarie Andrea Ronchi, del Pdl, ex An, allora fedelissimo di Gianfranco Fini. Questa legge consente ai privati di entrare nella gestione delle società pubbliche locali che gestiscono l’acqua. Il referendum per l’abrogazione della norma si terrà invece nella primavera del 2011 con un risultato schiacciante: a fronte di un’affluenza del 54,8% della popolazione italiana, i Sì (quindi i favorevoli all’abolizione del decreto) saranno il 95,3%, contro il 4,7% dei No. L’acqua resta totalmente pubblica, con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Ronchi, ha visto quello che sta accadendo a Roma?
Quello che succede nella capitale non può essere svincolato da quello che accade nel resto d’Italia, perché il problema del malfunzionamento della rete idrica è un problema nazionale, che riguarda tutte le città. Roma è cartina di tornasole, ma è figlia di una politica industriale sbagliata: le opere di modernizzazione della rete in Italia sono in ritardo di 30 anni.
Come fa a essere sicuro che con l’ingresso dei privati la situazione sarebbe migliorata?
La dispersione dell’acqua ci provoca sanzioni a livello europeo. Per modernizzare la rete servono decine di milioni di euro che né lo Stato né gli enti locali hanno a disposizione. L’ingresso dei privati avrebbe portato quelle risorse per consentire l’ammodernamento delle tubature. La nostra non era una privatizzazione, ma una liberalizzazione nella gestione. Era una legge che andava a migliorare il servizio. L’ingresso sarebbe stato consentito al massimo del 40%, ma la governance sarebbe rimasta pubblica. I privati entravano nei Cda, ma l’amministratore delegato restava a nomina politica.
I contrari sostengono che a decidere poi sarebbero stati i privati…
Le società restavano pubbliche, ma avrebbero avuto molte più risorse per operare. E sarebbe stato anche un volano per l’economia, perché si sarebbero creati posti di lavoro. L’ingresso dei privati avrebbe portato una liquidità di denaro che avrebbe permesso di modernizzare la rete idrica e le opere. I soldi poi sarebbero stati gestiti dall’ad dell’azienda, quindi un manager messo lì dal pubblico e che doveva rispondere al pubblico. Voglio farle una domanda.
Prego.
Le aziende dove li trovano i soldi per fare le opere di ammodernamento?
Dalle tasse.
Quindi l’unico modo è aumentare le imposte, e infatti le tariffe sull’acqua dal 2009 per i cittadini sono cresciute a dismisura. Alla fine i cittadini pagano di più per un servizio peggiore.
Contro di lei ci fu una sollevazione della sinistra.
Di Pietro fece l’ultima cosa intelligente della sua vota politica, coniando lo slogan “vogliono privatizzare l’acqua”. E’ stata una battaglia ideologica che rispondeva da una parte al fatto che per la sinistra il privato è sempre brutto, sporco e cattivo; dall’altra, alla volontà dei partiti di piazzare lì i propri rappresentanti, magari quelli trombati a livello nazionale. Ma anche il centrodestra mi lasciò solo: pure i nostri amministratori locali remarono contro.
Lei fu pure aggredito davanti a Montecitorio…
La campagna della sinistra fu molto violenta e mi trovai di fronte trecento scalmanati. Voglio però dirle una cosa.
Dica.
Quella fu una grande intuizione del governo Berlusconi che su molti temi anticipò alcune soluzioni, a partire dalla lotta contro l’asse franco-tedesco in Europa. Su molte cose avevamo ragione noi e il tempo ci sta dando ragione. La vicenda dell’acqua poteva essere il primo passo per l’ingresso di capitali privati nelle aziende pubbliche locali, a cominciare da quelle dei trasporti. Vediamo ora come è ridotta Atac, anche lì sarebbero stati utili.