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Il postmodernismo, questo sconosciuto. Un libro di Luca Serafini

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Ha scritto Alfonso Berardinelli che forse molti di noi non se ne sono accorti, ma la nostra vita si è svolta finora all’interno di un’epoca chiamata postmoderna. Il termine circola da parecchi anni, almeno da quando nel 1979 François Lyotard, nel suo celebre pamphlet La condition postmoderne, dichiarò che l’età più che millenaria delle “grandi narrazioni” si era chiusa per sempre. Lyotard teorizza la fine dei grandi racconti come l’illuminismo, l’idealismo e il marxismo, perché né il progresso scientifico e tecnico, come prevedeva l’illuminismo, né la progressiva spiritualizzazione dell’uomo immaginata da Hegel, avevano prodotto una nuova umanità, come dimostrato dall’Olocausto. Né c’era riuscito il marxismo, un mix di illuminismo e hegelismo rovesciato, all’origine di una delle rivoluzioni più sanguinarie della storia e di un regime più tirannico di quello degli zar.

Decretatata la fine irreversibile delle ideologie, seguirono decenni di “distruzioni” della modernità, dei suoi idoli, delle sue certezze, dei suoi ideali. La “decostruzione” è il cuore della filosofia di Jacques Derrida, che attacca il mito dell’intellettuale che illumina e guida le masse, mentre il suo compito dovrebbe essere quello di smontare le teorie e di verificarne la validità pratica. Un decostruzionista è anche Michel Foucault, per il quale l’età moderna inizia nel XIX secolo, quando nascono saperi oggi familiari come la filologia, la biologia, l’economia politica. A partire dall’Ottocento per lui l’uomo diventa oggetto di sapere, nascono le scienze umane -psicologia, l’antropologia, sociologia- per “costruire l’uomo”.

Anche la sessualità per Foucault è una costruzione culturale, scientifica e giuridica: è il prodotto dell’educazione familiare, ma anche delle decisioni di medici, giuristi, psicologici, pedagoghi. Foucault smonta pure l’idea tradizionale di potere, quella istituzionale-giuridica di Thomas Hobbes, ma anche quella di Marx, per il quale il potere vero è quello economico, a cui il potere politico è funzionale. Per Foucault il potere non sta in un punto, nel sovrano o nel capitale: è anonimo, è dovunque, onnipresente, è una rete di relazioni tra individui, dove contano i rapporti di forza, e ogni rapporto sociale è un rapporto di potere.

Da Derrida a Foucault, da Richard Rorty a Quentin Skinnner, si affermarono così i banditori di un nuovo verbo: la verità, la ragione, il progresso, sono solo fantasmi della vecchia metafisica, idoli posticci di cui si serve il potere per produrre subordinazione e dominio. A quel punto, la parte del mattatore la fece il “pensiero debole” con la sua tesi capitale secondo cui la “metafisica è violenza”, cosicché occorreva “ammorbidire” i fatti, mettere le parole prima delle cose per creare un mondo in cui l’imprecisione è valore, l’indeterminazione realtà, e via discorrendo. In fondo, il “debolismo” è la filosofia dell’esteta colto, raffinato e disincantato, che sul terreno etico si compiace tutt’al più di esortare alla cura dei valori della tolleranza e della solidarietà. Dopo un periodo in cui i “flebili” sembravano passati di moda, ci ha pensato Maurizio Ferraris con il suo Manifesto del nuovo realismo (2012) a gettare un sasso nello stagno. Il dibattito si è rianimato, e le polemiche tra debolisti e realisti si sono spartite la ribalta della cultura e hanno invaso la scena editoriale, fino ai giorni nostri.

Tutto questo e molto di più si trova nel libro di Luca Serafini, un giovane e ferratissimo filosofo che conosce la letteratura sul postmodernismo come le sue tasche (Etica dell’estetica. Narcisismo dell’Io e apertura agli altri nel pensiero postmoderno, Quodlibet). Molte le pagine che risultano convincenti, soprattutto laddove invita a non confondere il desiderio, sempre connesso alla legge e ai limiti che essa impone, con il godimento, con l’esplosione narcisistica dell’Io. Non a caso le nostre società soffrono di una mancanza crescente di desiderio, quanto più sono sottoposte all’imperativo di godere senza freni. Non esiste – sostiene l’autore – solo il Don Giovanni descritto da Søren Kierkegaard, ma anche quello descritto da Albert Camus. È un figura, quella ritratta nel Mito di Sisifo, che allude alla possibilità di una morale cosmopolita nell’era della globalizzazione, fondata sull’etica dell’ospitalità, sull’apertura agli altri, sul riconoscimento delle differenze. In tempi in cui squillano le trombe di un populismo sovranista e identitario, è un invito a non disperare per nulla disprezzabile.


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