L’acciaio non è più affare esclusivo dell’Occidente, cioè dell’Europa e degli Stati Uniti. Oggi il 68 % dell’acciaio mondiale si produce in Asia. La sola Cina ne produce il 50 %, essendo arrivata a questa quota di produzione mondiale in meno di 20 anni. Passando anche per l’Italia, come racconta il romanzo di Ermanno Rea, La dismissione, dedicato alla fine dell’impianto di Bagnoli.
La storia delle acciaierie di Terni è per questo emblematica e l’uscita recente di un bel volume di Alessandro Portelli – La città dell’acciaio. Due secoli di storia operaia (Donzelli) – offre l’occasione per ricordare una storia industriale, quella della “città-fabbrica” per eccellenza, che è anche una storia di come è cambiato il Paese.
Come sempre nei lavori di Portelli la storia è orale, fatta con la voce dei protagonisti, che sono gli operai, gli abitanti della città, le persone comuni e meno comuni. “Quando uscivano gli operai dall’acciaieria, l’Acciaieria Terni, tu non dovevi trovarti nella strada. l’hai incontrati mai quando uscivano? le uscite? era la fiumana… ma guarda… pensare ai tori… a Pamplona, è una miseria, quella!”. La fiumana “occupava tutta la carreggiata”, uomini a piedi e in bicicletta “che sciamavano e travolgevano tutto! (…) E quelli erano gli operai, quella era la classe operaia. Cioè, tu volevi vedere la classe operaia? Dovevi andare alle due quando usciva il turno”.
Dovevi andare all’uscita dal turno per vedere la classe operaia, racconta il testimone di Portelli. Questa era l’immagine della città-fabbrica, definita già nella seconda metà dell’Ottocento “Manchester italiana”. Una immagine oggi desueta. O, meglio, forse consueta in Asia.
La Terni a metà degli anni ’20 ha 3200 dipendenti. Oggi AST non arriva a 2400. Negli anni ’20 c’è Arturo Bocciardo, figlio di una famiglia di conciatori genovesi; studia ingegneria a Torino ed arriva come Presidente a Terni nel 1920. La guerra è finita e non ci sono più le commesse militari. Serviva produrre altro. Con la nuova ragione sociale “Terni, Società per l’Industria e l’Elettricità” nasce una azienda dove la siderurgia è l’attività principale assieme a due grandi centrali idroelettriche, tre laghi artificiali, due stabilimenti attivi nella chimica industriale. E fiorisce anche la città.
Racconta un testimone di Portelli: “Sì, la Terni si potenzia sotto l’impulso del senatore Bocciardo (…) dopo cena ci si riuniva, si parlava di musica, si parlava di teatro, di letteratura, ed era una cosa simpaticissima, questo senso di aggregazione, di evoluzione, che adesso non c’e più”. E un altro: “All’infori del fascismo, però se viveva molto più spensierati, c’era un’allegria immensa”.
L’intero territorio che si identifica nella sua grande industria.
Bocciardo diventa senatore nel 1933, quando la Terni siderurgica è già in crisi ed è già diventata di proprietà IRI; non è propriamente subalterno al fascismo. Ha semmai un rapporto diretto con Mussolini e la sua fabbrica totale sembra poco tollerata dalle istituzioni locali fasciste, come documenta Portelli. “Scrive nel 1927 il podestà Elia Rossi- Passavanti a Bocciardo: le confermo che il Fascismo ternano, come è nelle direttive generali del duce, deve essere il supremo regolatore della vita nella sua zona. Di questa realtà occorre prenda atto la societa Terni”. La Terni però non prende atto. Ha “una dimensione che va ben oltre la giurisdizione del fascio locale”, scrive lo storico. Come racconta un’altra voce di Portelli “qui si viveva esclusivamente per la Terni. la Terni era il canonicato”, “la gente si laureava, faceva tesi sulla Terni: sulla contabilità della Terni, sui consumi dell’olio della Terni, sui cascami della Terni”.
Il volume racconta la fine del fascismo, la guerra, il secondo dopoguerra, la ristrutturazione di Sinigaglia, autore di un piano che inevitabilmente passava per i licenziamenti. L’ex sindaco di Terni Raffaelli, nato nel 1953, racconta a Portelli “Quando mamma me portava in giro per viale Brin”, “quando je dicevano, quanto cià ’sto fijo signo’? lei rispondeva: è nato l’anno de li du’mila”. L’anno dei duemila era appunto l’anno del piano Sinigaglia, l’anno dei duemila licenziamenti dell’acciaieria.
Racconta le lotte operaie, i motivi di orgoglio, come “il vessel della centrale del Garigliano”, o la “batisfera di Picard”, uno scafo avveniristico (“la pressa scricchiolava, mi ricordo, mentre si faceva lo stampaggio delle due semisfere”).
Tra l’altro, ma nel libro non se ne parla, una divisione della Acciai Speciali Terni alla fine negli anni ’90 fu anche coinvolta in una inchiesta giudiziaria su un presunto “supercannone” commissionato dall’Iraq di Saddam Hussein. Probabilmente anche nelle armi Terni era una eccellenza.
La storia orale di Terni e dell’acciaieria è storia di lotte e anche di morti sul lavoro, anche quelli meno noti: “il giorno che veniva rapito Moro moriva un operaio”, schiacciato da un carroponte. O storia degli anni ’70 e ’80, hashish e beatnik compresi. Storia della globalizzazione, perché Portelli va ad intervistare anche gli operai indiani di un impianto “gemello” di Terni, quello di Nashik, nato dopo il passaggio di AST ai tedeschi della ThyssenKrupp.
Si incrociano protagonisti dell’operaismo teorico spaesati, come Mario Tronti, che andava insieme ad altri davanti alle acciaierie: “non riuscimmo mai a stabilire un rapporto” (…). Noi andavamo a cercare alle acciaierie di Terni una figura di operaio che avevamo trovato, che so, a Mirafiori”. Ma Terni non era Mirafiori.
Fino all’arrivo dei tedeschi, 2004. Nella città “antifascista” l’impatto è duro: persino nel tifo sportivo ci si ribella all’arrivo dei tedeschi in città: “ciavete solo i wurstel” era uno striscione allo stadio.
Quell’identificazione della Terni con la città, la Terni che era “aggregazione ed evoluzione” sembra rimasta identica. Solo che l’acciaio non è più quello di allora. E le fiumane di operai non ci sono più. Resta un monumento all’acciaio, piazzato in mezzo ad una rotatoria, ornato dalla beffarda scritta a vernice “Benvenuti in California”.