È molto probabile che la legge sullo Ius soli, rinviata all’autunno, slitti alla prossima legislatura anche se sarà uno dei temi di polemica nella maggioranza di governo dei prossimi mesi. Se o quando sarà approvata, si aprirà un altro problema al quale hanno pensato solo gli esperti e che finora non ha avuto la giusta attenzione.
Il tema è stato sollevato dall’ambasciatore Cristina Ravaglia, (nella foto), in una lettera al Corriere della Sera. Lei è stata fino a quattro mesi fa direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie del ministero degli Esteri e, senza entrare nel merito politico della riforma, attira l’attenzione sulla possibile futura combinazione delle norme sullo Ius soli con quelle sullo Ius sanguinis, grazie alle quali si può far valere un antenato risalendo fino all’Unità d’Italia. Avendo avuto la responsabilità dei servizi consolari, “nella maggior parte dei casi – scrive la Ravaglia – sono i consolati all’estero, soprattutto in Sud America, che acquisiscono e verificano i documenti: nella stragrande maggioranza dei casi viene riconosciuto cittadino italiano chi, totalmente straniero per lingua e cultura, di italiano ha solo una remota goccia di sangue e forse un cognome, ma troppo spesso aspira unicamente a un passaporto italiano solo per gli evidenti vantaggi di libertà di circolazione e stabilimento in tutti i Paesi Ue”.
L’approvazione della legge sullo Ius soli amplierebbe di molto la platea dei cittadini italiani e a maggior ragione andrebbe limitato il diritto di riconoscimento della cittadinanza in base allo Ius sanguinis al massimo a due generazioni. Altrimenti, spiega l’ambasciatore Ravaglia, potrebbe accadere che persone che in Italia hanno ottenuto la cittadinanza in base allo Ius soli, una volta tornate nei Paesi di provenienza, “darebbero origine a cittadini che di italiano non avrebbero né discendenza (principio dello Ius sanguinis) né cultura (principio dello Ius soli). In sostanza, occorre definire cosa voglia dire essere cittadino italiano: condividere valori, lingua e cultura oppure il sangue. O meglio, a quale di questi criteri dare preminenza”.
La preoccupazione dell’ambasciatore riguarda il rischio di “svilire la cittadinanza, riducendola al mero possesso di un passaporto, e ad avere, col tempo, letteralmente centinaia di migliaia di italiani nel mondo che, anche con il voto, peseranno sulla vita pubblica senza nulla dare in cambio. Neanche le tasse”. Difficile darle torto e forse la sua preoccupazione meriterebbe un posto nel dibattito autunnale.