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Xi Jinping annuncia il “secolo cinese”, meno socialista e più nazionalista

Il “secolo cinese” non è più un annuncio, un auspicio, una promessa: è una realtà che prende forma. Statuale, economica, sociale, politica, culturale. Sarà per il Paese un’epoca di rinnovato splendore nella quale il destino di un popolo, avviato a superare la soglia del miliardo e mezzo, verrà gettato nel fertile ancorché burrascoso mare della globalizzazione dove sta già nuotando peraltro con risultati eccellenti, per la verità, tra i detriti di potenze che avevano la stessa ambizione, ma che arrancano disperatamente con la sola preoccupazione di non annegare.

Xi Jinping guarda lontano e ai duemilacinquecento delegati al 19° Congresso del Partito comunista cinese, con la calma dello statista consapevole piuttosto che del visionario rivoluzionario, annuncia l’apertura di un “tempo nuovo” che culminerà nelle conquiste che sbalordiranno i cinesi ed il mondo nel 2049, centenario della fondazione della Repubblica popolare. Mao Zedong verrà ancora celebrato, come padre della patria, ma quanto distante dal suo modo di fare, dalle liturgie del tempo che fu, dalle idee che lo animarono nel guidare la lunga marcia è nelle parole e nei gesti di Xi Jinping, autocrate più forte e consapevole del “mito” a cui tutti dicono di ispirarsi ma che nei fatti hanno da tempo rimosso. L’anniversario non sarà l’omaggio al Grande Timoniere, ma al nuovo leader che, se dovesse essere in vita, avrà 92 anni. Già oggi, tuttavia, i cinesi, la nomenclatura, il partito intero gli riconoscono doti che a nessun altro capo hanno mai riconosciuto, a parte Mao. Sicché il segretario generale del Pcc e presidente della Repubblica popolare, oltre a rivestire moltissime altre cariche, sarà una sorta di Guida suprema nelle cui mani si è messa la Cina trascinata dal suo attivismo e dalla sua intelligenza politica degna di un Zhu Enlai, ideologo e difensore dell’ortodossia maoista al tempo della Rivoluzione culturale.

Forte del consenso di cui gode, Xi Jinping, promette una vita migliore e più felice; utilizza espressioni proprie dei capi carismatici senza oppositori nell’annunciare la “nuova èra”, quella segnata dal protagonismo cinese nel mondo; annuncia una lotta ancor più incisiva alla corruzione dopo aver decimato i vertici locali e centrali del partito e dello Stato. Il prossimo anno, in occasione delle celebrazioni del centenario del Partito comunista cinese, Xi sarà probabilmente glorificato per i risultati che presenterà – e che sono evidenti fin da adesso – e si prenderà definitivamente la Cina che vive in una sorta di atmosfera euforica la concretezza della sua forza che prelude alla rinascita di un nazionalismo  deciso e per nulla annacquato dal pacifismo che retoricamente da Mao a Deng Xiaoping le classi dirigenti cinesi hanno spacciato come una singolare ideologia irrorata da un marx-leninismo riveduto e corretto secondo la sensibilità cinese tendente, per tradizione, all’esaltazione dell’autorità politica mitigata da un populismo funzionale al rafforzamento del sentimento di appartenenza nazionale.

Xi Jinping, almeno da questo punto di vista, non ha cambiato strada, ma al primato socialista, pur affermato, ha affiancato, se non sostituito quello della nazione cinese con un’abilità davvero degna del più suggestivo maoismo d’antan. Tra le ovazioni dei delegati, infatti, ha detto: “Il tema fondamentale di questo Congresso è di non dimenticare il nostro obiettivo e la nostra missione: inalberare la grande bandiera del socialismo secondo la declinazione cinese, edificare globalmente una società moderatamente prospera e garantire il successo del socialismo cinese in una nuova era, lavorare indefessamente per la grande rinascita della razza cinese”.

“Socialismo cinese” è la copertura “mitica” del più banale, scontato e politicamente scorretto nazionalismo che oltretutto richiamerebbe storicamente chi l’ha incarnato, da Sun Yat-sen a Chiang Kai-Shek. Il primo, tanto per ricordarlo, in qualche modo “ispiratore” sia di Mao sia del suo antagonista sconfitto, il generale Chiang, sosteneva più che la “rinascita” la difesa e l’espansione della “razza cinese”, interpretata poi politicamente come nemica del Giappone e di chi le contendeva l’egemonia in Estremo Oriente. Adesso che l’allargamento globale degli orizzonti geopolitici impone un’economia aggressiva ed una finanza spregiudicata anche e soprattutto a chi ha costruito contro l’economia di mercato la propria identità socialista e nazionalista al tempo stesso, s’impone una nuova visione: Xi ha saputo coglierla nelle aspettative dei cinesi usciti dal tunnel di Tienanmen e proiettati verso Occidente senza perdere l’anima. Riuscirà il nuovo Timoniere a mantenere questa rotta?

L’interrogativo induce i cinesi all’ottimismo se guardano ai risultati conseguiti da quando Xi è al potere. Sotto la sua guida il Pil è balzato da 8,2 a 12 trilioni di dollari; il 30% della crescita globale è da attribuire alla Cina che rivendica, per di più, una modernizzazione tecnologica pari solo a quella conseguita dal Giappone tra gli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso. Le sue città più importanti sono spettacolari rappresentazioni di uno spirito di potenza che ha un solo precedente, quello degli Stati Uniti nell’immediato secondo dopoguerra. Le università e la ricerca scientifica sono oggettivamente avanzate al punto da far concorrenza all’Occidente dove, soprattutto in alcuni Paesi come l’Italia, la cultura umanistica è al palo mentre i cinesi la scoprono entusiasti e probabilmente sanno più di noi di Ovidio e Orazio, Tacito e Svetonio, Seneca e Lucrezio. Per esperienza personale ho incontrato più giovani appassionati di greco e latino a Pechino e a Shangai che nelle nostre contrade.

Ma il diritto del popolo a guadagnarsi il suo posto nel mondo, come pretende Xi, fino a sognarne addirittura la “rinascita della razza”, è compatibile con il quotidiano disprezzo dei diritti umani, con la persecuzione delle minoranze, con la permanente occupazione del Tibet ormai perfino culturalmente annesso alla Repubblica popolare attraverso l’espediente della “sostituzione etnica”, con le intemperanze verso la Chiesa Cattolica e la simmetrica protezione della Chiesa patriottica? Il 13 luglio scorso lo scrittore dissidente Liu Xiaobo, premio Nobel che non ha potuto ritirare, è morto di cancro e da detenuto in un ospedale militarmente sorvegliato. Xi Jinping non ha mosso un dito, nessuno ha detto una parola in Cina e la politica mondiale, al di là delle smozzicate frasette di cordoglio,  è rimasta sostanzialmente inerte davanti a tanta arroganza politica. La Repubblica popolare cinese ha vinto un’altra battaglia senza spargimento di sangue, con le armi del Pil, dei tassi, delle esportazioni, della tecnologia e della produzione per i mercati occidentali a basso costo.

Sarà anche cinese il secolo che stiamo vivendo, ma a che prezzo?


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