È il febbraio del 1969, nel pieno del boom economico e nel clima di moderata euforia che attraversa l’Italia fino a raggiungere anche la Sicilia profonda, quando un paesino dell’isola, Acquaviva, si anima per una faccenda privata che diventa immediatamente collettiva, come accade da sempre da quelle parti. Trascurando ciò che di “epocale” sta accadendo nel Paese, gli abitanti del piccolo centro che si conoscono tutti e ognuno di loro sa tutto dell’altro, restano sconvolti (si fa per dire) ed avvinti dall’avventura che ha per protagonista la giovanissima Palmina. Dopo cinque anni di matrimonio, seguito alla classica “fuitina” con il suo spasimante Vincenzino, ha abbandonato inaspettatamente ed improvvisamente il tetto coniugale facendo ritorno sotto quello domestico dove la madre che pure aveva rotto i rapporti con lei per l’improvvida decisione di darsi ad un uomo senza neppure avvertirla, l’accoglie e si mette a sua disposizione per riparare, se possibile, al danno.
Ce n’è di materia per discutere, almanaccare, fare ipotesi, spettegolare, animare la vita sociale della dormiente Acquaviva. Soprattutto quando si scopre che la bellissima ragazza, oggetto del desiderio di chiunque, dopo essere stata alla mercé del marito per così lungo tempo è ancora illibata. E sull’illibatezza si gioca tra pretura e Sacra Rota, ma soprattutto nei bar e nelle private abitazioni, oltre che negli studi legali dello stesso paese e perfino nella sagrestia della parrocchia dove la matassa finalmente si sbroglia. Ah, se non ci fossero i preti e Santa Madre Chiesa, almeno una volta…
Una matassa intricata non poco, in verità, avendo tutti i soggetti interessati l’obiettivo di far quadrare ciò che non può essere quadrato: offrire un alibi accettabile a Palmina per il grave reato dell’abbandono del marito reo a sua volta di non aver consumato il matrimonio e la salvaguardia dell’onore di Vincenzino, già noto e diffamato in paese come “Fimminedda” tanto per sottolinearne la scarsa virilità. Un teorema da far tremare le vene ai polsi.
La storia ha un epilogo ancor più spumeggiante. La giovane donna, ignara dei piaceri della carne negatigli dal compagno creduto ingenuamente idoneo a soddisfarla, tanto da fuggire con lui perché innamorata o semplicemente infatuata, cede, in un momento di distrazione della madre guardinga, nel momento più acuto della disputa legale, agli impulsi scatenati dalla conoscenza di un occasionale dongiovanni di provincia che completa la già ricca frittata con un colpo di scena inimmaginabile. Quel che accadrà, comunque, sanerà, per via di quei misteri che si scioglievano un tempo soltanto in Sicilia, tutte le ferite. O quasi.
A grandi linee, è questa la trama del primo romanzo di un sorprendente esordiente nel mondo delle lettere: Michele Guardì, (nella foto). Fimminedda (Sperling & Kupfer, pp.195, €16,90) è il frutto del ricordo della giovanile esperienza di avvocato appena laureato che l’autore sapientemente condisce con il colore della fantasia che negli anni si è dilatata a tal punto da farlo diventare un caposaldo della televisione italiana nell’invenzione di programmi di successo che continuano ancora e costituiscono asset sicuri per il servizio pubblico che mai li ha messi in discussione. Guardì, alla tenera età di settantaquattro anni, con lo stesso entusiasmo del giovanotto che patrocinava cause nella provincia siciliana una cinquantina d’anni fa, si è lanciato nell’avventura di romanziere regalandoci pagine godibilissime scritte con la leggerezza del disincanto figlio di una terra che ne ha viste fin troppe per non cogliere il grottesco ed anche l’abnorme in una storia di passione e d’intrigo che si risolve con avveduto senso dell’opportunità appena innervato da una sottile malinconia (e non spiegherò, naturalmente, il perché).
Se il romanzo è accattivante, avvincente, scritto con leggerezza ed eleganza perfino quando s’inerpica sulla via che potrebbe indurre l’autore ad immergersi nella morbosità sollecitata dalla vicenda stessa, va pure detto che esso – almeno per come l’ho percepito – è anche una prova della commedia umana che ci restituisce i colori, i caratteri, lo spirito di una certa Sicilia ammaliante e sensuale, ironica e lieve, tragica e giocosa, con le sue mille contraddizioni che la rendono fascinosa ed amabile. Guardì si palesa così uno scrittore di razza, misurato e spassionato, stilisticamente ammirevole, esordiente sì, come ama definirsi, ma ricco di uno straordinario patrimonio di sentimenti che affiorano nelle pagine del romanzo alla stessa maniera di come si propongono a chi ha la fortuna di conoscerlo.
Dopo aver fatto l’avvocato, aver scritto per il cabaret e la radio, aver inventato un certo modo di fare televisione, aver messo in scena, in forma di musical, niente di meno che I promessi sposi (con grande successo), Guardì si è lanciato, senza paracadute, nel cielo della letteratura. Il volo sarà stato segnato da umane incertezze, ma l’atterraggio è stato morbido. Fimminedda, storia quasi vera come tutto ciò che partorisce la fantasia dei siciliani autentici, non è soltanto un romanzo, ma un “nuovo inizio” per un uomo che tante volte ha iniziato portando sempre a compimento la sua opera. Applausi.
Michele Guardì
Fimminedda
Sperling & Kupfer, 2017 pp.195, €16,90