Un travet del popolare quartiere romano del Prenestino, tale ragionier Cesaretto Mericoni, pungolato dal nuovo ed improbabile amico americano Tyrone Maccarone, informatore della Cia, si lancia pressoché quotidianamente in descrizioni ed analisi del Belpaese che il funzionario statunitense, sotto copertura, raccoglie avidamente trasformandole in rapporti per i suoi superiori destinati a finire sulla scrivania dello Studio Ovale alla Casa Bianca. Si vedono ogni mattina al baretto del quartiere dove il Mericoni conduce una vita abbastanza squallida che tuttavia lo appaga alquanto, punteggiata da vicende che riempiono la sua solitudine e la sua mancanza d’amore sublimata, grazie agli incoraggiamenti dell’amico americano, da amori mercenari perfino coinvolgenti.
È così che prende forma, sotto specie di colloqui informali, destinati ad evolvere in un’amicizia dagli imprevisti sviluppi, la “politologia” di Cesaretto, molto più “vera” di quella sparsa a mani basse da tanti analisti che non ne azzeccano una, lontani come sono dal Paese reale. Il Paese che, invece, il ragioniere del Prenestino conosce bene frequentandolo nelle sue pieghe più intime, addentrandosi negli angoli più nascosti, immedesimandosi nei problemi dei suoi simili che come lui vivono le stesse angosce, nutrono le medesime passioni, si esaltano (poco, in verità) degli stessi “miti”.
Capisce, insomma, più Cesaretto che non è un retore o un denigratore di professione, di politica che i Soloni che pontificano la mattina sui giornali e la sera nei talk show. E di questa sua semplicità, frutto della dimestichezza con la quotidianità, a Washington gliene saranno grati al punto da glorificarlo con una nomina impensabile se non nell’èra Trump, della quale non dirò qui per non infrangere il racconto con suspence finale che Roberto Gervaso snocciola nel suo delizioso pamphlet che assomiglia ad un romanzo e forse lo è insieme a tante altre cose, elementi di un libro sulla condizione presente dell’Italia non certo esaltante.
Lo scrittore, con la solita arguzia e lo stile che nel tempo hanno incantano un numero impressionante di lettori (non saprei quantificare), nel suo Le cose come stanno (Mondadori, pp.125, € 17,00), praticamente “l’Italia spiegata alle persone di buon senso”, offre uno spaccato della vita politica nazionale ad un tempo amaro eppure paradossalmente gustoso per il ricco repertorio di pochade inanellate, che lascia in bocca uno sgradevole sapore appena alleviato dalla godibile narrazione dell’Autore che fa sembrare quel che accade come una storia inventata, ricca di annotazioni storiche, di riferimenti colti, ma anche attraversata dalle vicende del “testimone” inventato la cui personalità non è dissimile da quella di molti nostri connazionali.
Gervaso, attraverso Cesaretto, ha dato voce proprio a chi non ce l’ha con il suo stile semplice ed elegante, con le sue incursioni nel passato che è sempre tanto simile al presente, con le mirabolanti descrizioni dell’irrisolto “caso italiano” nel quale si affollano personaggi in cerca d’autore che immancabilmente non trovano, ed autori che vorrebbero trovare dei personaggi restando altrettanto a secco.
Spopolano di questi tempi il boy scout di Pontassieve asceso a Palazzo Chigi con la sua corte, più o meno miracolata; il “fighetto” napoletano che veste come Lord Brummel all’ombra di un comico dal quale tutto esteticamente lo divide, politicamente non lo abbiamo ancora capito; l’Orlando furioso padano lanciato alla conquista d’Italia (quella che voleva dividere un po’ di tempo fa) con i voti del Cavaliere tornato in sella per la sua ultima rivincita.
Masanielli e Capitan Fracassa, nei rispetti campi disastrati dopo la fine di un sistema politico che pur con tante pecche qualcosa di buono era riuscito a combinare, si disputano le spoglie del Belpaese, nell’indifferenza sempre più palese dei cittadini ormai disgustati e rassegnati costretti a vivere in città un tempo meravigliose, come Roma, amministrate da un personale politico che non si capisce come sia potuto venir fuori. A proposito di Roma, Gervaso scrive, intervenendo come voce fuori campo, nel racconto di Cesaretto: “Non era una Capitale, tantomeno una metropoli, ma un mix fra un manicomio, un bordello un circo equestre, un luna park, una camera a gas. Non funzionava niente, e se qualcosa funzionava, la popolazione piombava nel panico perché dove nulla funziona nulla deve funzionare per non sturbare. Come dicono al Testaccio, ma anche a Prima Porta, gli abitanti”.
Chi ci capisce è bravo, insomma. E Gervaso è uno che se ne intende. Ha visto passare tipi di ogni genere e colore sotto i suoi occhi fin dall’antichità cui si è dedicato amorevolmente riportandocela con il fascino che abbiamo apprezzato. Oggi si deve accontentare dei figuri che ammorbano le nostre esistenze. Non tenta di nobilitarli, come fa qualche aedo di regime, ma di rappresentarli per quelli che sono: militi della decadenza ai quali non più d’uno sberleffo si addice. E Gervaso è un maestro in quest’arte come conferma questo suo ultimo libro scritto con la levità del saggio che ormai frequenta Seneca e Ovidio, Erasmo e Sinesio di Cirene. No, non sono ministri del governo del conte Paolo Gentiloni, ma appartengono ad un altro mondo, ad un’altra storia che talvolta, se si ha la fortuna di leggerla, ci conforta alquanto. Come la prosa di Gervaso, uno degli ultimi eleganti conservatori consapevole che non c’è più nulla da conservare tra queste macerie.
Le cose come stanno
(Mondadori, pp.125, € 17,00)