L’Europa, condannandosi all’irrilevanza, ha fatto proprio il nichilismo che agli inizi del secolo scorso immaginava di arginare rigenerando i connotati identitari delle nazioni che ne costituivano la trama culturale. Oggi il “declinismo” che l’affligge non è il prodotto di filosofie rinunciatarie o apocalittiche, ma la conclusione di un processo di decomposizione realizzatosi con il progressivo abbandono di quell’idea di civiltà che pure nei tempi più difficili la caratterizzavano. Sicché l’Europa è una nullità concettuale prima che politica che tuttavia non autorizza l’abbandono ad una sia pure flebile speranza di ricostruzione. Necessaria se i suoi popoli intendono avere un destino sottraendosi sia a chi la nega dal punto di vista del superamento delle nazioni sovrane sia da quello che la vuole un grande mercato privo di vocazione politica e culturale.
Il “tramonto” europeo è nei fatti. Ma nei fatti c’è anche l’esigenza di una sua “resurrezione” a fronte di assetti geopolitici che non possono vedere soccombente il Vecchio continente al punto di non contare più nulla. La necessità di scrollarsi di dosso il complesso d’inferiorità che l’affligge, costringerà l’Europa (ovviamente nessuno sa dire quando) a ricorrere alle sue estreme risorse per rinascere a nuova vita. Per esempio rinunciando al dominante neo-colonialismo che l’affligge e la limita, per stabilire, ad esempio, con l’Africa un rapporto privilegiato – come veniva ipotizzato alcuni decenni fa da politologi ed antropologi tutt’altro che “eurocentrici” – tale da impedire alle emergenti potenze asiatiche e ai tradizionali referenti atlantici di assumere connotazioni dominanti da annullare perfino le aspirazioni più elementari dei popoli europei.
Ma c’è un elemento al quale è imprescindibile riferirsi avendo davanti un contesto deteriorato, eppure ancora vitale e dunque in grado di autorizzare il contrasto al “declinismo” programmato. È il disseppellimento delle antiche fondamenta europee, le sue radici, al fine di riappropriarci di un patrimonio culturale che solo può giustificare la perennità di un’idea umana e religiosa ed etica e dunque politica. È quanto sostiene, con argomentazioni solide da non lasciare scampo alla loro condivisione Danilo Breschi, docente di Storia delle dottrine politiche, nel suo coinvolgente, appassionato e lucido saggio Meglio di niente. Le fondamenta della civiltà europea (Mauro Pagliai Editore, pp.190, euro 12,00).
In esso lo studioso sostiene, con ragione, che “in fondo non ci amiamo” come europei (ma anche come italiani, tedeschi, francesi, spagnoli e così via). Diversamente risponderemmo all’ideologia del declino con un impegno culturale e civile e morale che si riassume nella visione di una civiltà dalle molte sfaccettature e animata da un solo sentimento, quello che ci raggiunge dalla più antica storia il cui smarrimento, soprattutto tra le generazioni più giovani, ha generato la decadenza nella quale siamo indiscutibilmente immersi e ad essa non sappiamo reagire se non con una cronaca che ci induce a prendere atto di ciò che l’Europa è diventata, mentre le agenzie di formazione non trasmettono più valori, ma soltanto accettazioni passive di quanto viene programmato nei laboratori del consumo pseudo-culturale. L’Europa, scrive Breschi, “deve riconoscere le proprie parentele, quelle vere, e disconoscere quelle fasulle, o quelle che hanno disonorato la sua più nobile tradizione giuridica e filosofica”.
Da questo punto di vista una conoscenza della storia (sostenuta con vigore da Breschi) è indispensabile. E d’aiuto, insieme con molti altri studi, potrebbe essere il saggio di Christopher Dawson, uno dei maggiori storici inglesi del Novecento, l’ormai classico La genesi dell’Europa, meritoriamente riproposto da Lindau (pp.409, euro 34,00), nel quale l’introduzione alla storia dell’unità europea dal IV all’XI secolo – davvero cruciali nella costruzione dell’identità continentale – viene giustamente considerata come un’età di rinascita dal momento che la complessa integrazione tra Impero romano e Chiesa cattolica, tradizione classica e società sostanzialmente “barbare” eppure soggiogate dalla romanità favorì la nascita di una vitale civiltà, come descrisse magistralmente Gioacchino Volpe nei suoi studi sul Medio Evo e sugli albori della nazione italiana parte di una nazione europea esistente nonostante tutto come spirito d’intrapresa nella edificazione di un edificio su rovine che non vennero rimosse, ma rivitalizzate grazie anche al monachesimo generatore di fede e di cultura.
Si può non essere d’accordo sulla politica antinazionalista di Dawson, suscitata da contingenze che andrebbero storicizzate, ma non si può non scorgere nella sua analisi la ricerca delle fondamenta unitarie delle nazioni stesse nel quadro di un’Europa che viveva nell’ambito di un “impero interiore” che ancora attende di essere riportato in vita, come sembrerebbe suggerire Breschi.
Fu grazie a quelle origine indagate dallo studioso inglese che divenne possibile ciò che nei secoli successivi alla dissoluzione dell’Impero romano, vale a dire la ricreazione di uno spirito di conquista che segnò l’Europa a partire dal XV secolo, come ci ricorda Renato Cirelli in uno saggi storico di piacevole lettura che ha il merito di ripercorrere la strada che portò alla scoperta del “mondo nuovo” nel segno della cristianizzazione che non può e non deve essere considerata come un tentativo di colonizzazione brutale quale pure è stata ritenuta. Per i tipi del coraggioso e lungimirante editore calabrese D’Ettoris, Cirelli ha pubblicato L’espansione europea nel mondo. Ascesi, crisi e declino di un’aspirazione imperiale (pp.218, euro 19,90), nella bella collana diretta da Oscar Sanguinetti, con il quale contribuisce a sfatare numerosi luoghi comuni e a farci riappropriare di una storia – come auspicato da Breschi – che ignoriamo quasi del tutto, a meno di non voler considerare come contributi “essenziali” a colmare la deficienza le diverse fiction che riducono la storia a “fogliettoni” di dubbia utilità quando non apertamente perniciosi. Naturalmente l’autore non manca di riferire anche dei frutti avvelenati che l’Europa, soprattutto dal XVIII secolo, esporta nel mondo, i frutti della Rivoluzione, del giacobinismo, del totalitarismo e dell’irreligiosità.
Non tutto ciò che è europeo, dunque, merita di essere salvaguardato. Ma nel capace calderone della storia galleggiano elementi che sarebbe bene riuscire a separare. Forse questo è stato il danno maggiore di un europeismo sostanzialmente illuminista che da ultimo si è concretizzato nel fallimento di un progetto costituzionale che tenesse insieme tutto ed il contrario di tutto dimenticando il riferimento alle radici cristiane, elleniche e romane; una dimenticanza che probabilmente ha portato tanti autori a denunciare la “sottomissione” ad altre culture e religioni nel nome della integrazione o, peggio, dell’assimilazione, dimenticando che il principio identitario non è un conato retorico di nazionalisti in ritardo sulla storia, ma l’indispensabile riferimento di una comunità composita, come quella europea, che per esistere deve riconoscersi in qualcosa, come suggerisce, per esempio Giulio Meotti nel suo lamento lacerante in forma di saggio: La fine dell’Europa. Nuove moschee e chiese abbandonate (Cantagalli, pp.219, euro 17,00).
L’Europa che non crede più a se stessa è fatale che non faccia più figli, che non si proponga di organizzare il suo futuro, che trascuri la propria fisionomia per abbracciare l’indifferentismo nel nome del relativismo. L’indebolimento della fede cristiana è l’aspetto più inquietante di questa ritirata sotto la tenda in attesa della caduta finale che sono proprio gli europei a determinare, a perseguire tenacemente con una insopportabile decisione a confondere la loro stessa natura con il nulla. Scrive Meotti: “L’Islam radicale sogna di raccogliere i frutti di una conquista, ma non è la loro conquista, è la conquista degli europei su se stessi. Una civiltà he si sta tagliando la gola attraverso il proprio meschino egoismo”.
(Foto: Maarten de Vos “Ratto di Europa” – 1590)