Chi sono i foreign fighter? Chi sono quei combattenti “di ritorno” che costituiscono il pericolo più grande dopo la sconfitta militare dell’Isis perché potrebbero decidere di fuggire dalla Siria e dall’Iraq e cercare di tornare in Europa per continuare la loro guerra? Nonostante le analisi degli specialisti propendano per direzioni diverse, cioè itinerari che li porterebbero verso altre aree di crisi, l’attenzione dell’antiterrorismo è costantemente concentrata su di loro. Sono storie molto diverse di uomini, donne, minori, qualche volta di intere famiglie che hanno deciso di aderire al jihad e che interessano l’Italia perché sono cittadini italiani o perché sposati con italiani o perché semplicemente transitati sul nostro territorio. Su ognuno di loro c’è un faro acceso.
I NUMERI
La Direzione centrale della Polizia di prevenzione (l’antiterrorismo della Ps) ha un quadro chiaro e li controlla in coordinamento con le altre forze dell’ordine e con l’intelligence. Oggi i foreign fighter sono 129, di cui 117 uomini e 12 donne. I cittadini italiani (o con doppia nazionalità) sono 24, tra cui 13 convertiti; di essi solo 8 sono partiti dall’Italia. Dei 24 cittadini italiani, 7 sono donne, di cui 6 convertite. Su 129 gli investigatori sono certi della morte di 42 soggetti, anche se molto probabilmente sono di più, e tra i deceduti ci sono due italiani di nascita: Giuliano Del Nevo e Francesco Cascio. I ritornati in Europa sono 23, di cui 11 in Italia e in gran parte si tratta di siriani catalogati quali oppositori al regime di Bashar al Assad. Infine, sono in carcere 4 degli 11 ritornati in Italia e, sul totale di 129, 5 sono localizzati nel teatro libico e gli altri in quello siro-iracheno.
DA VITE NORMALI ALL’ISIS
I percorsi di alcuni soggetti dimostrano la molteplicità delle possibili cause. Un tunisino di 31 anni, entrato in Italia nel 2008, si era sposato con una italiana dalla quale ha avuto una figlia. Tornato in Tunisia tra agosto e settembre 2014, si è radicalizzato sotto l’influenza di un cugino. Arrestato per diversi reati ed evaso nel 2015 tornando nel suo Paese, è finito in Siria nel 2016 e lì è morto in un attentato suicida. Una delusione d’amore, invece, pare sia stata determinante nel caso di Neji Ben Amara, tunisino di 38 anni: arrivato in Italia nel 2001 e in procinto di sposarsi, la rottura della relazione lo convinse a recarsi in Siria morendo a Kobane nel 2015. In questo caso la radicalizzazione avvenne in qualche moschea milanese. Gli investigatori, però, comprendono nell’elenco anche chi è stato solo di passaggio in Italia come un tunisino clandestino trentenne entrato nell’aprile 2011: trasferitosi in Francia due anni dopo e poi in Siria con la moglie francese nel 2014, è stato individuato a ottobre 2016 alla periferia di Parigi. L’Italia non sembra più nei suoi pensieri, ma è monitorato lo stesso.
ALCUNI SONO RIENTRATI IN ITALIA
Anche tra gli 11 tornati, di cui 4 in carcere, ci sono storie interessanti. Un siriano di 31 anni, frequentatore della moschea di San Donà di Piave, con qualche precedente penale e in contatto con altri foreign fighter, fu uno degli arrestati il 12 febbraio 2012 per danneggiamento e violenza privata durante la manifestazione davanti all’ambasciata siriana a Roma. Individuato in Siria come combattente del Battaglione Suleiman, è tornato in Italia nell’aprile 2016. Un altro siriano, trentenne sposato e padre di tre figli, arrivato una prima volta nel 2000, nonostante una discreta situazione economica, faceva parte di un’organizzazione che favoriva l’immigrazione clandestina. Dal 2012 in Siria, è stato nuovamente individuato nei pressi del valico di Courmayeur. Pure combattente nel Battaglione Suleiman è un terzo siriano trentenne: entrato in Italia nel 2011, è partito per la Siria nel maggio 2012 tornando in Italia due mesi dopo.
Il pericolo arriva anche dai Balcani. Uno sloveno di 27 anni, sotto inchiesta in Italia dove ha abitato nel 2013, è stato arrestato a Lubiana nel 2016 con l’accusa di reclutamento di foreign fighter dall’Italia alla Siria ed estradato nel giugno 2017. Oggi è in carcere in Italia. Fa drizzare le antenne, invece, un curdo iracheno di 27 anni entrato in Italia nel 2011 e abitante a Bolzano: partito tre anni fa per l’Iraq e combattente in un gruppo terroristico del Kurdistan, nel giugno 2016 ha detto a un conoscente di Bolzano di voler rientrare appena possibile.
GLI ITALIANI
I casi più famosi sono due. Giuliano Del Nevo era un operaio genovese che si era avvicinato all’Islam radicale frequentando moschee a Genova, Imperia e Milano. Partito nel dicembre 2012 per la Siria, è morto il 13 giugno 2013 vicino ad Aleppo: aveva 24 anni. L’altro è il siciliano Francesco Cascio, disoccupato con problemi psichici e sposato con un’italiana, morto in Siria alla fine del 2016 a 26 anni. Anche sua moglie, Laura Bombonati, si era convertita all’Islam più radicale ed era partita con lui: rientrata in Italia nel febbraio 2017, oggi è in carcere.
LE DONNE
Più famosa della Bombonati è certamente Maria Giulia Sergio, la trentenne campana di origine e residente a Inzago, nel Milanese, che dopo essersi sposata con un albanese, Aldo Kobuzi, aveva convinto padre, madre e sorella a convertirsi all’Islam. La sua conversione è del 2009, ma è nel 2012 che si estremizza: nel 2014 andò in Siria mentre non ci sono conferme su un suo trasferimento in Turchia nel 2016. Nel dicembre di quell’anno è stata condannata con altri familiari e il marito a 9 anni di reclusione per arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale. Pochi invece avranno sentito parlare di Alice Brignoli, quarantenne comasca sposata con un marocchino, Mohamed Koraichi, e madre di tre figli, partita nel 2015 per la Siria con tutta la famiglia. È sotto inchiesta per associazione con finalità di terrorismo.
I MINORI PROBLEMATICI
I ragazzi fragili sono più facilmente preda di ideologie estremiste. È il caso di Tarik Aboulala, marocchino arrivato in Italia a 15 anni, nel 2010, e affidato a una comunità per minori problematici perché orfano di padre e da lì scomparso nel 2015 dopo avervi svolto attività di proselitismo. Sarebbe morto in combattimento in Siria nell’aprile 2016. Con lui era scomparso da quella comunità un altro marocchino, Monsef El Mkhayar, 23 anni, indagato per terrorismo e altri reati, che alla fine del 2016 dalla Siria avrebbe più volte manifestato la volontà di tornare in Europa.
L’INFLUENZA DI ALCUNI IMAM
Due figli di un esponente di spicco della moschea di Varese sono morti in combattimento in Libia: in particolare il primo, diciassettenne, durante un bombardamento a Sirte, dopo aver frequentato moschee di Tripoli. Il padre, tunisino che oggi ha 33 anni, sarebbe stato arrestato in Tunisia nel novembre 2016: combattente e reclutatore nei Balcani e in Afghanistan, avrebbe militato nella Brigata “Farka 17” in Libia. Anche Oussama Khachia, figlio dell’imam di Varese, arrivato in Italia a 9 anni nel 1993, sulla spinta del padre si era radicalizzato tanto da essere espulso dal ministro dell’Interno nel gennaio 2015. È morto in Siria nel dicembre di quell’anno. Un altro imam, responsabile della moschea di Sellia Marina (Catanzaro), è stato determinante nel destino del figlio: il ragazzo è stato arrestato nel 2011, è partito per la Siria alla fine del 2013 ed è morto il 20 aprile 2014 durante un bombardamento nella zona di Aleppo.
INTERE FAMIGLIE
Cinque componenti della stessa famiglia italo-belga sono foreign fighter. La madre è italiana, il padre è un militante islamico presente in Siria dal 2013 e tutti erano in contatto con ambienti integralisti belgi. Una delle figlie è sposata con un combattente algerino, la madre (italiana di 39 anni pur se nata in Francia) e aderente al gruppo terroristico di Jabath al Nusra, è stata arrestata nel gennaio 2016 con le due figlie in un aeroporto belga mentre cercava di tornare in Siria. Sarebbe invece in Libia da oltre due anni un iracheno di 44 anni, arrivato in Italia nel 1998 e residente a Venezia dove sono tuttora due suoi fratelli. Un’altra famiglia “vivace” visto che uno dei fratelli è stato arrestato perché collegato a una cellula di al Qaeda responsabile di un attentato in Iraq.
LA PREVENZIONE
La costante attenzione ha permesso finora di tenere sotto controllo la situazione espellendo personaggi a rischio che non avevano ancora commesso reati: nel 2017 sono stati 105, di cui 5 imam, per un totale di 237 espulsioni dal gennaio 2015. Gli estremisti arrestati per motivi religiosi l’anno scorso sono stati 36, dopo i 33 del 2016. L’ultimo esempio è l’arresto a Genova del marocchino Nabil Benhamir, pronto a immolarsi per l’Isis e che nelle intercettazioni diceva chiaramente di essere in attesa di istruzioni, forse con l’uso di automobili. Purtroppo la prevenzione che si fa in Italia non trova dappertutto riscontri in Europa: nonostante quanto si scoprì a Molenbeek, il comune alle porte di Bruxelles dov’era la cellula terroristica responsabile degli attentati di Parigi, in Belgio non è cambiato niente sul fronte investigativo e normativo.
L’italiana Laura Passoni, nata in Belgio da emigrati e sposata con un marocchino, dopo essersi radicalizzata era andata in Siria tornando indietro dopo soli otto mesi nel 2015. Arrestata, è stata condannata a 5 anni con la condizionale: è lecito chiedersi come sia possibile prevedere la condizionale in casi del genere e con pene di quell’entità? Sono esempi su cui riflettere perché chi opera per la sicurezza in Italia lo fa tutti i giorni al meglio.