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Lorenzin o Cesa? Il valore filosofico del centrismo nel periodo della diaspora

cesa lorenzin

Ormai è molto tempo che parlare della cultura di centro significa fare riferimento ad uno spazio politico frammentato e in via di dissoluzione. Fatalmente identificato con la Democrazia Cristiana, il destino di questo topos identitario ha a fatica cercato di non seguire la sua scomparsa. All’inizio degli anni ’90, dopo che Mani Pulite aveva massacrato giudizialmente il partito guidato da Arnaldo Forlani, gli eredi italiani di una delle più importanti tradizioni intellettuali europee moderne si sono andati dividendo tra chi optava per un’alleanza con la sinistra, il neonato Partito Popolare, e chi invece per stabilire un patto moderato con Forza Italia e la Lega, come il CCD.

A ciò si aggiunse una spaccatura interna anche al Partito Popolare che portò progressivamente ad una ulteriore diaspora al centro.

Oggi è passata molta acqua sotto i ponti, ma non può non tornare in mente, quando si assiste al collocamento elettorale delle coalizioni che si fronteggeranno il 4 marzo, il percorso sofferto e molto dignitoso dei cosiddetti ex democristiani.

Non a caso, anche nell’ottica odierna del tripolarismo emerso con l’affermarsi del Movimento Cinque Stelle, l’area di centro si divide tra coloro che, dopo aver collaborato nella Legislatura conclusa con i governi di Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, intendono proseguire su questa strada di centrosinistra, in modo particolare Beatrice Lorenzin e la sua Civica Popolare; e coloro che invece optano fortemente per un’alleanza con il neo-centrodestra, in particolare Lorenzo Cesa, Raffaele Fitto e Maurizio Lupi.

Tutto questo movimento al centro rappresenta solo una pragmatica gestione tattica del proprio destino, oppure vi è anche qualcosa di più profondo e politicamente più rilevante che accomuna tutti?

Se si guarda alla storia delle dottrine politiche si riscontra che la distinzione destra/sinistra ha un senso logico e cronologico antico e perdurante. Il binomio, ad avviso di chi scrive, riguarda la visione dell’uomo e della politica: da un lato vi è la destra che difende un forte concetto di natura, legato a elementi immutabili, particolaristici, comunitari, eccetera; dall’altro la sinistra che si concentra invece su tematiche legate strettamente alla realizzazione universale di libertà sociali, quali uguaglianza, collettività, eccetera.

In questo quadro anche il centro ha una sua lunga storia, rappresentando un punto di orientamento che è sintesi ma anche diversità rispetto a sinistra e destra.

Parlare di natura per chi è di centro significa riferirsi alla persona umana in senso universale, e non solo a elementi sentimentali definiti da appartenenze singolarmente identitarie e deterministiche. Parlare di libertà significa, d’altronde, esprimere un dato di origine umana che non può essere soppresso e neanche identificato unicamente con il progresso quantitativo dei diritti, come invece vuole e pensa la sinistra.

Il centro, inoltre, ha un particolare rapporto con i valori religiosi, in specie cristiani, non unicamente nell’Italia cattolica ma anche nella Germania protestante e nell’Inghilterra anglicana. Come spiegava Jacques Maritain, rifacendosi alla neo-scolastica tomista, la buona politica deve fondarsi su un concetto naturale integrale di persona umana che segna un’alternativa alla riduzione dell’uomo a pura animalità oppressa o a pura libertà emancipata. Inoltre, come chiariva Etienne Gilson, per un cattolico la natura umana è universale e buona ma ferita dal peccato: pertanto bisognosa di essere limitata (Luigi Sturzo) e purificata (Joseph Ratzinger) dalla fede o da un ethos metapolitico. La politica non può coincidere, insomma, nelle sue finalità ultime con la definitiva felicità umana.

Mi ricordo che Ciriaco De Mita, in un’intervista televisiva di molti anni fa, disse che essere di centro significava per lui avere qualche dubbio oltre le certezze che contraddistinguono destra e sinistra. Io penso piuttosto che si tratti di considerare, come suggeriva Joseph De Maistre, la perfezione ma anche l’imperfezione della politica; di valutare l’importanza delle appartenenze identitarie ma anche dei bisogni di libertà; di ponderare bene la laicità dell’azione politica ma anche la sua fragilità intrinseca (Paul Ricoeur). In questo senso chi è di centro vuole mediare non perché gli convenga, ma perché sa che tale è lo scopo positivo e la finalità ultima della democrazia.

In caso di necessità chi è di centro sceglie ovviamente se stare con la sinistra o la destra. Lo fa però non perché manchi di un proprio sostrato culturale, ma perché ritiene che comunque la propria idea politica sia anzitutto etica, magari religiosa, e perciò sempre incompatibile con assolutismi e fondamentalismi rivoluzionari, reazionari o populisti: alla fin fine il centrista è contrario a programmi che possano tradursi in istanze totalitarie, violente e antidemocratiche, distruggitrici dell’essere umano e della sua trascendenza.


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