“Pensavo che, unendomi all’esercito, ogni segno di emotività sarebbe stato interpretato come una debolezza. Ma una volta dentro, capisci che nessuno è una macchina. L’esercito è una famiglia”. Con queste parole fuori campo, l’esercito inglese ha lanciato, nei giorni scorsi, una campagna promozionale per reclutare nuove leve.
Lungi dal saper controllare le proprie emozioni, il soldato del duemila le può esprimere senza pudore. Anzi, se ne può far vanto. Si può vantare senza timore anche di saper scoppiare in lacrime. Sembra una notizia minore, quasi di colore, e forse lo è. Ma da essa forse si può ricavare anche qualche riflessione più generale, considerandola un altro segno del cedimento dell’Occidente a valori che potrebbero autodistruggerlo. Nella inconsapevolezza totale, in nome del “politicamente corretto”, del fatto che non si può continuare a star seduti su una sedia se se ne segano le gambe.
La nostra è stata da sempre, in effetti, una civiltà che ha saputo dosare con sapienza aggressività e dolcezza, forza e amore, politica e morale, virtù forti e virtù miti, lo spirito romano e quello cristiano, le qualità “maschili” e quelle “femminili” (che non appartengono ovviamente in senso stretto a un genere sessuale piuttosto che a un altro). Ciò nella consapevolezza che l’amore senza potenza è vuoto e la potenza senza amore è cieca. Ora, non c’è dubbio che l’esercito, sia esso composto di uomini o donne, è un serbatoio di qualtà “virili”. Così come altre istituzioni lo sono di quelle che tali non sono. Se viene meno questa distinzione, tutto l’edificio è a rischio di crollo. La moralità del guerriero non può essere quella del pastore di anime: ognuno deve fare il suo mestiere.
In controluce, dalla notizia che arriva d’oltremanica, c’è poi un’altra deduzione da fare: essa concerne il venir meno, in società iperdemocratiche come la nostra, di ogni principio di autorità e autorevolezza. E quindi della possibilità stessa di creare delle élite riconosciute e riconoscibili. Una società liberale, infatti, non può fare a meno, come qualunque altra società vitale, di élites. Pensarlo ė mera illusione. Se partiamo dalla convinzione che siamo tutti uguali, che “uno vale uno”, al momento in cui dovremo rinnovare il potere, agiremo di conseguenza: non terremo in nessun conto non solo la competenza specifica dei nuovi arrivati ma neanche la forza e la stabilità del loro carattere. Prevarrà solo la fedeltà di chi è stato scelto a colui che lo ha scelto. In nome della democrazia, trionferanno il conformismo individuale e l’impoverimento generale della comunità.