La visita di un autorevole esponente vaticano quale il cancelliere della pontificia accademia delle scienze, monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, sembra proprio confermare l’aria di svolta tra Cina e Santa Sede. Per alcuni è una speranza, per altri un timore, anche se in un tempo come quello presente, segnato dal rischio di nuove guerre, forse fredde ma forse no, la semplice idea che il Vaticano possa dopo tanto tempo stabilire relazioni diplomatiche con il gigante asiatico dovrebbe suonare quasi a tutti come sinonimo di acqua benedetta per il futuro di tutti, a partire da noi occidentali, per arrivare ai cinesi e ai cattolici cinesi. Per riuscirci ovviamente occorre un dialogo improntato a quello spirito di autentica amicizia che vuol dire non ritenersi superiori all’altro.
La questione è di casa in Vaticano ormai da anni, e il pontificato di Jorge Mario Bergoglio ne ha fatto un’evidente e dichiarata priorità. Gli avversari di questo dialogo la mettono in termini molto strani, quasi che Papa Francesco non si confronti con una scelta epocale per il mondo, ma abbia capovolto la linea esposta dal suo predecessore, Benedetto XVI, che sarebbe stato contrario a questo dialogo. Sembra che in certi ambienti non ci sia altra chiave di lettura, tutto è conflitto Bergoglio-Ratzinger. Il che con ogni probabilità non solo non è vero, ma è anche il contrario della verità, visto che in un recente importantissimo incontro proprio sulla Cina che ha avuto luogo alla Civiltà Cattolica, padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione Ratzinger, è parso correggerli: “Dal punto di vista della Chiesa in Cina e anche dal punto di vista della Chiesa universale presentato dai Papi, non vi è il minimo dubbio che la Chiesa cattolica in Cina possa e debba essere allo stesso tempo pienamente cinese e pienamente cattolica. Il suo legame con la Chiesa cattolica universale non è di natura politica, ma religioso, spirituale; non contraddice in alcun modo il pieno inserimento della vita cristiana e dell’annuncio del Vangelo nel contesto cinese, anzi, è proprio la garanzia della sua specifica vitalità e quindi del suo apporto originale alla società e al Paese. Tutta la bellissima storia che abbiamo evocato di rapporto positivo, in sincera amicizia, tra Ricci e i suoi successori e i dotti cinesi, diversi dei quali aderirono al cattolicesimo, è un solidissimo argomento e modello di vera inculturazione a cui continuare a ispirarci. Al servizio di questa piena identità – al tempo stesso cinese e cattolica della Chiesa in Cina –, e solo ad esso, mirano i contatti in corso fra le autorità della Santa Sede e le autorità cinesi. Contatti chiaramente auspicati da Benedetto XVI nella sua «Lettera», e ripresi ora nel nuovo clima del pontificato di papa Francesco.”
Dietro queste parole echeggia il nodo che si cerca di risolvere, e cioè la questione del ruolo del governo cinese nella nomina dei nuovi vescovi, il ruolo di quelli nominati da Pechino e di quelli fedeli a Roma scelti in passato.
La questione, come è stato scritto con grande precisione solo poche ore fa qui su Formiche.net da Benedetto Ippolito, è importante, ma non nuova: ha accompagnato la Chiesa per secoli. Se dunque si deve avviare un cammino nuovo dopo tante difficoltà è naturale che difficilmente si possa partire dal punto che altrove è stato un punto di arrivo frutto di un lungo cammino. Ma i fautori di una Chiesa politicamente legata all’Occidente e quindi avversa al regime cinese stanno spingendo forte sull’acceleratore delle critiche. L’arcivescovo emerito di Hong Kong, il cardinale Zen, li guida con veemenza, visto che arriva a definire il segretario di stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, “uomo di poca fede”. Ripreso da alcuni siti italiani simpatetici e amici di questa visione, il cardinale ha scritto sul suo blog che “il segretario di Stato della Santa Sede ha detto che ‘conosciamo le sofferenze subite ieri ed oggi dai fratelli e dalle sorelle cinesi’. Ma quest’uomo di poca fede capisce che cos’è una vera sofferenza? I fratelli e le sorelle del continente cinese non hanno paura di essere ridotti in povertà, di esser messi in prigione, di versare il sangue, la loro sofferenza maggiore è di vedersi traditi dai ‘familiari’. L’intervista di Parolin è piena di opinioni sbagliate (sperando che i suoi discorsi siano coerenti con i suoi pensieri). Ma non è decente per un alto dirigente della Santa Sede manipolare la lettera [ai cattolici cinesi] di un papa anche se già ritirato, citando la frase ‘La soluzione dei problemi esistenti non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili’, ma nascondendo che la lettera prosegue immediatamente dicendo che “nello stesso tempo, però, non è accettabile un’arrendevolezza alle medesime quando esse interferiscano indebitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina della Chiesa”.
Appare però evidente che Benedetto XVI, proprio come ha sottolineato padre Lombardi, abbia scritto tanto la prima parte come la seconda, indicando quindi quell’amicizia che senza la prima parte della frase non ci sarebbe.
Per farsi un’idea diversa di quale sia la posta in gioco, al di là dello specifico problema dei criteri di nomina dei vescovi, aiuta molto leggere nell’ultimo volume di padre Antonio Spadaro, “Il mondo nuovo di Francesco”, i contributi di due autorevoli esperti di questioni cinesi, Francesco Sisci e Gianni Valente.
Sisci sottolinea che in Asia, patria del 60% della popolazione globale e motore del 60% della crescita globale, le questioni usualmente poste da Roma non arrivano, non dicono nulla. Il linguaggio di Francesco ha creato una novità, un interesse, una comprensione, che va al di là di quelle isole tradizionali, come il Vietnam, la Corea e le Filippine, presenze complesse perché frutto di passati coloniali. Ora in Cina la comprensibilità e accessibilità tematica dei discorsi di Papa Francesco, la comprensione di alcuni suoi allarmi come allarmi anche relativi al proprio futuro, può portare a compimento una svolta cominciata proprio con la lettera di Benedetto XVI, il primo che è riuscito a comunicare al governo, all’opinione pubblica e ai fedeli della Cina che non deve esservi contraddizione tra essere buoni cattolici e buoni cinesi. Una strada che cambierebbe l’Oriente e che Francesco ha già imboccato nominando cardinali, come il laotiano Manghanekoun, che ha appena 50mila seguaci nel suo Paese. Segno che si vuole parlare a tutti.
Gianni Valente poi prosegue questo ragionamento scrivendo che per Bergoglio, e qui sembra il punto di dissenso con il cardinale Zen e i suoi sostenitori, non intende stringere cordoni sanitari contro il pericolo giallo, o benedire alleanze che aiutino il collasso di Pechino; il Vaticano non è più, se ne deduce, il correlato religioso di strategie nemiche: “Rimane all’orizzonte la possibilità che in questo passaggio storico il papato possa contribuire a disinnescare anche le prospettive di scontro tra Occidente a guida nordatlantica e superpotenza cinese, e questo può accadere proprio perché il papato si affranca da collateralismi reali o presunti con gli attori globali occidentali”.
La geopolitica della misericordia di Bergoglio si confronta qui con la partita più importante, amaro leggere racconti di uno snodo del genere che cancellano l’orizzonte.