È un profilo intellettuale quello che propone Malgieri, indicando in Corridoni l’anticipatore di “nuove sintesi” politico-culturali di cui coglie sorprendenti analogie con il dibattito attuale. Qui di seguito anticipiamo il primo capitolo dedicato all’“etica e all’estetica della rivoluzione”.
Filippo Corridoni è stato considerato in molti modi nel corso dei cento anni seguiti alla sua morte. Una vasta letteratura ce lo consegna nei modi più disparati: tutti sono plausibili ed è legittima qualsivoglia interpretazione del suo breve eppure intenso percorso. Mettendo insieme il tutto, al di là delle passioni ideologiche e delle strumentalizzazioni di parte, oltre alle demonizzazioni postume, non si corre il rischio di appropriarsene indebitamente giudicandolo un antesignano del bellicismo proletario come necessità rivoluzionaria.
Insomma, egli fu un convinto sostenitore dell’impegno italiano nella Prima Guerra Mondiale non perché ritenesse fondate le ragioni degli interventisti borghesi, a cominciare dalla retorica intorno al “completamento del Risorgimento”, ma per l’opposta ragione. Vale a dire: far diventare, con la partecipazione al conflitto, il proletariato soggetto di primo piano nella vicenda nazionale e, dunque, legittimato a decidere del destino della più vasta comunità alla quale apparteneva che con il processo di unificazione aveva avuto ben poco a che fare.
L’etica corridoniana in questo senso si sposa con l’estetica rivoluzionaria a cui egli stesso ha dato un notevole impulso, attratto dal sorelismo non meno che da un marxismo rivisitato, depurato dalla componente internazionalista e ripulito dal materialismo secondo l’esperimento “scientifico” proposto da Lassalle, Bernstein, Lagardelle e poi da Arturo Labriola e da Enrico Leone. Un’estetica che nell’azione diretta avrebbe avuto la sua esplicitazione formale più evidente e da essa avrebbe tratto ispirazione un’intera generazione per trarsi dall’impaccio di un rivoluzionarismo datato e sterile, invecchiato nell’esaltazione retorica della Comune di Parigi e dei moti del Quarantotto.
In altri termini, con Corridoni – ma si potrebbe dire con la dottrina della “violenza necessaria” di Sorel ancor prima – fa irruzione nello smantellamento della pratica marxista il decisionismo individualista che cerca di conta- giare le classi affinché assumano la responsabilità della partecipazione alla guida della nazione. In tal senso l’etica e l’estetica rivoluzionaria, come si vedrà dalle note che seguono, si tengono nella figura di Corridoni caratterizzandola tra tutte le figure rivoluzionarie dell’epoca, perfino rispetto a quelle più prestigiose come Benito Mussolini, per una sua peculiarità assimilabile, in un diversissimo contesto, ai nazional- conservatori tedeschi che nello stesso torno di tempo, rifiutato il marxismo come ispirazione, riescono a mettere insieme l’elemento völkisch con quello più propriamente sociale e nazionale.
Corridoni, tanto per fare un esempio, era alla stregua di Ernst von Salomon o di Ernst Niekisch o di Otto e Gregor Strasser – che si sarebbero manifestati nel dopoguerra come soggetti attivi, generati da movimenti rivoluzionari an- tiborghesi – il simbolo delle inquietudini che nel primo Novecento scuotevano, non diversamente dalla Germania, l’Italia la cui formazione sta- tuale era per certi versi simile a quella della nazione tedesca. In entrambe la questione sociale e quella nazionale s’intrecciavano e, per di più, sollevazioni popolari contro il potere costituito, contro la borghesia capitalista che lo sosteneva, non erano tanto dissimili. In un contesto di totale indecisione, nel caotico svolgersi della vita politica, nel disagio provocato soprattutto nelle classi meno abbienti dal trasformismo parlamentare (il riformismo socialista ne era uno degli esempi più eloquenti) Corridoni, ma non solo lui, com’è noto, riassumeva nella sua militanza rivoluzionaria un “sentimento” di rinascita sociale.
La comunità nazionale, infatti, era prigioniera in parte di una cultura politica tendente a sviluppare un senso di irreggimentazione del pensiero e delle libertà individuali, in una logica oggettivamente di sopraffazione quale ideologia della meccanizzazione del lavoro e dell’appropriazione delle esistenze dei lavoratori stessi. Il benessere materiale come conquista di una borghesia, incapace di guardare oltre il proprio meschino orizzonte – cui si opponevano giovani intellettuali come Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giovanni Boine, Scipio Slataper, oltre a Enrico Corradini, ai numerosi “figli” di Alfredo Oriani ed al trionfante Gabriele D’Annunzio – tendeva a corrompere un proletariato sempre più attratto da quella standardizzazione di vita che la classe dominante gli proponeva.
Grazie al socialismo riformista e trasformista che aveva messo all’asta gli ideali per poche once di considerazione da parte della borghesia erede del risorgimentalismo privo di gloria e di ambizione (Francesco Crispi se n’era andato da un pezzo), in Italia, non diversamente da altri Paesi europei, in particolare modo Francia, Inghilterra e Germania, negli anni Dieci del secolo scorso l’affarismo partitico diede vita ad una dimensione degenerata della dialettica tra classi e gruppi di potere. Il risultato fu che i meno abbienti, abbacinati dal mito del progresso, da miraggi edonistici e dalla promessa di una partecipazione irrealizzabile nelle condizioni del tempo alla vita politica nazionale, furono indotti a consegnarsi ad un democratismo di facciata in- carnato dal parlamentarismo con la convinzione di contare finalmente qualcosa.
A questo punto di corruzione il socialismo ancora di stampo marxista, incarnato dal Psi dei Turati e dei Treves, aveva condotto la classe operaia nel recinto del giolittismo dove avrebbe dovuto spirare per asfissia. La reazione del sindacalismo rivoluzionario fu morale e politica, classista e inconsapevolmente nazionale come si evincerà dalla sua scelta di schierarsi per l’in-tervento nella guerra mondiale. A taluno, non impropriamente, verrebbe oggi in mente di qualificare l’atteggiamento di Corridoni e com- pagni come “populista” o “antipolitico”. Potrebbe essere corretto se ad entrambe le definizioni si facesse corrispondere l’obiettivo di restaurare, attraverso la presa d’atto delle ragioni del popolo e l’accusa del politicantismo imperante, un’idea partecipativa della politica richiamando quella concezione della “lotta” che Alfredo Oriani aveva inutilmente cercato di diffondere con l’appello ad una “rivolta ideale” che soltanto alcuni decenni dopo sarebbe diventata pratica corrente.
Corridoni può ben dirsi “discepolo inconsapevole” di Oriani e come tale, nazionalista e socialista al tempo stesso. La sua “antipolitica” ed il suo “populismo” furono volti a screditare il potere, ma ancor più a rendere cosciente il mondo operaio che il suo riscatto non poteva che passare attraverso un’etica del sacrificio (che sa- rebbe stata anche un’estetica della rivoluzione) tesa a riappropriarsi del proprio destino. Lo scopo era di dare dignità al lavoro degli umili, rigettare la meccanizzazione delle fatiche di- sprezzate in nome di un nuovo umanesimo, pervole” di Oriani e come tale, nazionalista e socia- lista al tempo stesso. La sua “antipolitica” ed il suo “populismo” furono volti a screditare il potere, ma ancor più a rendere cosciente il mondo operaio che il suo riscatto non poteva che pas- sare attraverso un’etica del sacrificio (che sa- rebbe stata anche un’estetica della rivoluzione) tesa a riappropriarsi del proprio destino. Lo scopo era di dare dignità al lavoro degli umili, rigettare la meccanizzazione delle fatiche di- sprezzate in nome di un nuovo umanesimo, per inaugurare un diverso modo di partecipare attraverso la dirompente “azione diretta” del sindacato operaio o di mestiere e, in politica, l’adozione della “democrazia diretta” della quale Giuseppe Rensi, scampato alla repressione milanese di Bava Beccaris nel 1898, e riparato a Lugano, nel 1901 con accenti quasi profetici andava scrivendo.
Corridoni penetrò forse più di chiunque altro lo spirito del tempo dal quale sarebbe scaturita una “mobilitazione totale” volta a restituire al popolo l’anima che poco alla volta, ed in forme anche violente, gli veniva sottratta per indirizzarlo a prendersi ciò che era suo: la nazione. Riuscì nell’intento. Nel solo modo possibile: mettere l’ardore rivoluzionario al servizio di una causa più coinvolgente qual era la guerra. E dalla guerra l’Italia, per quanto sfregiata materialmente, ne uscì rigenerata moralmente. Una guerra che, secondo Corridoni, non doveva es- sere né di difesa, né di conquista, ma occasione – cruenta certamente – di radicale mutamento: una guerra di popolo pensata per il popolo nella quale o si vince tutto o si perde tutto, simboleggiata essenzialmente da un non-luogo qual è la trincea dove i sentimenti ed i risentimenti con-vivono con gli ideali e le necessità, il sudore ed il sangue con la gloria effimera, quella più seducente e commovente. Il buco dove la speranza non ha cittadinanza, ma vi si fa strada lo “spirito eroico” a cui noi oggi, cento anni dopo, attribuiamo l’origine moderna di un’etica e di una estetica della rivoluzione.