Tra le innumerevoli biografie di Augusto poche sono quelle hanno il pregio di coniugare il profilo umano e psicologico dell’imperatore con le gesta militari e la visione politica unite queste ultime ad una capacità di governo non comune all’epoca e presa ad imitazione (non sempre riuscita) da numerosi suoi successori. Goffredo Coppola, nella sua opera, snella ed essenziale a fronte delle monumentali ricostruzioni della vita a Augusto, è stato uno dei pochi a fornire un profilo complessivo della non facile, ma esaltante esistenza di colui che pose le fondamenta della edificazione di quella che sarebbe passata alla storia come la civiltà romana. Ed il grande filologo, a lungo dimenticato quando non demonizzato per via delle sue scelte politiche tra le due guerre del secolo scorso, oggi timidamente rivalutato, ma non ancora interamente riabilitato come meriterebbe, si rivolge ai suoi contemporanei richiamandoli, ben oltre le sue stesse intenzioni forse, a riguardare Augusto non soltanto per ciò che è stato, ma con la speranza che venga tratto dalla “cristallizzazione” per togliere la polvere del tempo dalle sue tracce che conducono ad una concezione della res publica i cui elementi costitutivi sono ancora oggi – soprattutto oggi, direi – indicativi di una corretta interpretazione del governo del popolo per quanto retto da un autocrate in piena sintonia con lo spirito della sua gente e più altamente consapevole delle esigenze di un impero i cui segni hanno accompagnato la storia dell’umanità per duemila anni.
Coppola non intese presentare, secondo la moda del tempo – la prima edizione di Augusto venne pubblicata nel 1941 dall’Utet, nella collana di biografie diretta da Luigi Federzoni “I grandi italiani” – l’imperatore come un “precursore del fascismo”. Correttamente lo collocò nella sua epoca ed abilmente lo sottrasse alle facili e ritualistiche interpretazioni retoriche del regime salvandolo dalle strumentalizzazioni dei classicisti improvvisati ed inclini a compiacere i potenti nel solo modo possibile, riassumendone il percorso fidandosi delle fonti, anche le più discutibili, con il risultato di restituirlo integro e depurato dalle leggende soprattutto come costruttore di uno Stato forte, inclusivo e, per quanto possibile, tollerante.
“Mentre si confondono o cozzano l’una contro l’altra religione e filosofie diverse, lingue e costumi diversi, vecchie gelosie di popoli e di classi – scrive Coppola – , Augusto raccoglie nel nome di Roma tutte le genti e appare Padre della Patria, Imperatore di immensi territori che i suoi eserciti e la sua burocrazia, le armi e la giustizia contengono nei limiti del diritto e della civiltà”. È questa un’annotazione assai pregnante per comprendere non soltanto l’indole di Augusto, ma anche per capire come la Repubblica, dilaniata dalle guerre civili e finalmente domata, ma non organizzata per mancanza di tempo (l’assassinio giunse puntuale) da Giulio Cesare, nelle sue mani si trasformò in ciò che ambiva da secoli, vale a dire un impero universale, una comunità nella quale le diversità convivevano nella libertà salvaguardata dalle leggi e dalle legioni. Il disordine spirituale, segnalato da Coppola, delle classi dirigenti caratterizzato da una cupidigia politica perniciosa per la vita della Repubblica, stava dissolvendo la società romana che aveva smarrito l’insegnamento ed il culto dei padri, mentre le ambizioni di “modernizzarsi” venivano frustrate dalle micidiali lotte tra le fazioni. Per invertire la rotta, dopo i tragici eventi succeduti alla congiura che pose fine alla vita di Cesare, Augusto raccolse intorno a sé i migliori uomini di cultura, i militari più valorosi, gli strateghi più lungimiranti ed i politici più avveduti per rifondare l’idea di Roma che rischiava di morire. Le basi dell’Imperium romanum vennero gettate da chi non aveva dimenticato il lungo apprendistato intellettuale e non si era distaccato dagli amici che lo avevano accompagnato nel corso della sua intensa e luminosa giovinezza, tra i quali figurava Vipsanio Agrippa, autentico “suggeritore” del princeps tanto nelle vicende pubbliche quanto negli affari privati.
Osserva ancora Coppola: “Lo Stato, la res publica , era per Augusto il fondamento della vita civile e religiosa e morale del popolo, sopra tutto e sopra tutti lo Stato. Perciò egli aveva recitato bene la sua parte; perciò aveva detto agli amici morendo: ‘Se tutto è andato bene, se il mimo vi è piaciuto, d’un generale applauso rendetemi il tributo’. Eguale a se stesso, sempre, dagli anni della giovinezza alla morte, egli aveva il cuore e l’animo dei grandi del passato, e marca ritirarsi talvolta dalla ‘scena’ politica come Scipione Emiliano, solo con se stesso e con pochi amici, spesso con poeti e dotti. Ma sulla ‘scena’ o nell’intimità cordiale e affettuosa della sua casa modesta, o in campagna, egli rimaneva, come a Roma, al di sopra dei nemici e degli amici, e obiettivava la sua esistenza nelle cose e nei fatti, Capo di un popolo proiettato nell’avvenire del mondo e della civiltà”.
La devozione dello studioso per l’imperatore è palese. Coppola non fa nulla per celarla o almeno attenuarla . Il suo studio è un vero e proprio “esercizio di ammirazione” e scintillante è lo stile letterario che pagina dopo pagina conquista il lettore, unitamente a precisazioni filologiche che mettono ordine nelle caotiche esegesi di studiosi antichi e moderni dei documenti augustei. Il tutto rende l’opera meritevole di essere riproposta anche come antidoto spirituale alla decadenza.
Ma chi è Goffredo Coppola, silenzioso filologo, docente universitario, ideologo, storico e decrittatore dei segni di età perlopiù incomprensibili ai nostri contemporanei che incontrò il suo destino, seppe riconoscerlo, assecondarlo fino alla morte?
Nato a Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, il 21 settembre 1898, Coppola riassume in sé la tragedia del Novecento e si propone all’attenzione quale figura emblematica che racchiude nella propria vicenda intellettuale e civile le speranze, le passioni, l’impegno ed il coraggio di una generazione dominata da una certa idea dell’Italia. Un’idea che per Coppola, come per tanti altri, che scoprirono il senso dell’appartenenza alla nazione italiana, e finirono soggiogati da un potente amor di Patria, nelle trincee della Grande Guerra, si esprimeva nella consapevolezza di completare il Risorgimento dando alle masse il diritto di cittadinanza nelle istituzioni politiche e sociali, oltre a farle partecipi di un processo di identificazione con i valori nazionali.
Insomma, Coppola si viene a trovare sulla stessa lunghezza d’onda del pensiero di Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Roberto Forges Davanzati, Maurizio Maraviglia, Luigi Federzoni, vale a dire la schiera di nazionalisti che contribuì a trasferire il sentimento della nazione nel più carnale sentimento di classe: dall’incontro, com’è noto, nacque il fascismo del quale Coppola colse le ragioni intime del suo farsi movimento di rinascita dopo la tempestosa vicenda bellica. (…)
Coppola fu tutt’altro che fascista acritico. Non esitò, ad esempio, ad opporsi ai modi e agli atteggiamenti dell’onnipotente segretario del Pnf, Achille Starace. Opposizione che gli fruttò una condanna al confino scontata la quale non soltanto non divenne antifascista, ma chiese a Mussolini di riammetterlo nei ranghi del Partito.
Fra i docenti universitari, Coppola fu forse l’unico volontario in guerra. Tra il 1939 e il 1943 alternò, fedele alla sua concezione della vita come milizia civile, l’insegnamento universitario al combattimento su difficili fronti. Nel 1941 rinunciò alla cattedra di Letteratura greca offertagli dall’Università di Roma e partì con l’Armir per la campagna di Russia. Il 16 giugno 1943 venne rimpatriato perché molto malato. Dopo il 25 luglio fu arrestato con la risibile accusa di aver svolto propaganda fascista: e chi non l’aveva svolta? Coppola sicuramente meno degli altri. Negli anni Venti e Trenta aveva affidato il suo pensiero a scritti profondi, oltre che a quelli propriamente filologici, apparsi su riviste come «Gerarchia», «Civiltà fascista» e sui quotidiani «Il Popolo d’Italia», «Il Resto del Carlino», «Corriere della Sera». Cariche politiche non ne cercò e non le volle. Per puro spirito di servizio accettò per un certo tempo la poco prestigiosa vicesegreteria della federazione fascista di Bologna, più per fare un piacere all’amico Leandro Arpinati che per intima convinzione.
Come filologo Coppola produsse all’incirca un centinaio di saggi di filologia classica nei quali cercò non soltanto di legare l’Italia alle sue radici, ma di vivificare il mito di Roma vedendo anche nell’espansionismo fascista lo sbocco di una vocazione imperiale storicamente compressa. Della sua produzione scientifica restano, in particolare, oltre alla biografia di Augusto (1941), il penetrante saggio La politica religiosa di Giuliano l’Apostata (1930), i numerosi studi filologici, in particolare il Teatro di Terenzio (1942) e la splendida Vita di Epicuro (1942), profilo partecipe di un maestro che Coppola avvertiva particolarmente vicino alla propria sensibilità.
Dopo 45 giorni di detenzione, il 9 settembre 1943, venne rimesso in libertà. Aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Il 15 ottobre assunse la direzione del vecchio «Assalto», la rivista della federazione bolognese. E alla fine dello stesso mese fu ricevuto per la prima volta da Mussolini alla Rocca delle Caminate. In ragione del suo ufficio, la presidenza dell’Istituto nazionale di cultura fascista e della connessa direzione di «Civiltà fascista», Coppola tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 ebbe frequenti incontri con Mussolini e un intenso scambio epistolare. Fu certamente questo il momento più laborioso della sua attività politica culminata, all’inizio del 1945, nella nomina a ministro dello Stato della Rsi. E fu anche il periodo in cui intervenne maggiormente con articoli giornalistici sulle questioni del momento. In particolare Coppola si distinse per un’accentuata attività in favore della costituzione di un «fronte nazionale» che promuovesse la riconciliazione tra gli italiani.
La fine della Rsi venne vissuta da Coppola quasi con serenità si potrebbe dire. Attese al suo lavoro fino all’ultimo. Partecipò a riunioni politiche come aveva sempre fatto. Continuò a studiare e a scrivere. La sera del 25 aprile 1945, volontariamente perché niente lo obbligava, decise di partire con Mussolini e con i gerarchi verso la Valtellina: l’ultimo inutile viaggio dal quale tutti sapevano che non sarebbero più tornati. La colonna di automezzi giunse a Como nelle prime ore della notte. Poi, il 27 mattina, insieme con i militari tedeschi che nel frattempo l’avevano raggiunta, la colonna proseguì. Il resto è storia. I partigiani la fermarono, Mussolini venne arrestato, insieme con i gerarchi che lo accompagnavano. Dongo fu il teatro della fine di questi ultimi.
Alle 17.48 del 28 aprile, sulla piazza di Dongo il colonnello Valerio, alias Walter Audisio, comunista e plenipotenziario del Cln, ordinò, senza neppure la parvenza di un processo, la fucilazione dei gerarchi. Il carnefice che guidò la mattanza, due anni dopo raccontò all’ ”Unità”: «Furono allineati con la faccia rivolta al lago e alle loro spalle feci schierare il plotone di esecuzione alla prescritta distanza. Dopo che il capo del servizio d’ordine ebbe intimato l’attenti ai giustiziandi, feci ordinare il dietrofront in modo che essi potessero essere visti in faccia dall’ecclesiastico che aveva chiesto di assisterli con i conforti della religione. Terminato il breve ufficio, venne di nuovo ordinato l’attenti e il dietrofront. Nelle loro schiene i giustizieri fecero fuoco simultaneamente». Per questo nobile gesto, Audisio venne ricompensato da Togliatti con un seggio parlamentare. Coppola pagò la sua fedeltà al fascismo con il prezzo più caro. Poi, quel suo corpo privo di vita, ammassato insieme con gli altri corpi su un carro come carne dopo la macellazione, fu portato a Milano ed esposto a piazzale Loreto. La ferocia comunista regalò all’empietà il più triste e disgustoso spettacolo mai messo in scena. Lo stesso Coppola avrebbe faticato nel cercare simili sconcezze negli arcaici costumi di europei lontani dall’imbarbarimento totale.
Finalmente, nel luglio 1951 ci fu chi, non accecato da spirito di fazione, volle dare al corpo di Goffredo Coppola onorata sepoltura. Fu l’Università di Bologna a ricordarsi del suo rettore e a provvedere all’esumazione della salma individuata con grandi difficoltà: era la salma n. 30 seppellita nel cimitero del Musocco. Alla sua ricognizione provvidero, pietosamente e con encomiabile dedizione, tre rettori, predecessori e successori di Coppola, i professori Chigi, Guerrini e Battaglia, assistiti dal fratello dell’estinto. Il 28 luglio 1951, i poveri resti di Coppola furono tumulati nella Certosa a Bologna, in un loculo sotterraneo del cortile del Cinquecento. (…)