Lasciano increduli e sgomenti a Taranto le affermazioni apparse sul blog del Movimento 5 Stelle che hanno sottolineato come le parole contenute nel contratto di governo sottoscritto fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini e riguardanti il sito dell’Ilva nel capoluogo ionico preludano concretamente all’avvio della sua chiusura. Ma veramente il nuovo Governo che sta per insediarsi vorrebbe iniziare le sue attività annunciando la dismissione coatta di quella che è la più grande fabbrica manifatturiera d’Italia? Sarebbe proprio questo uno dei primi messaggi che si intende lanciare all’industria del Paese che produce, investe, esporta e compete nel mondo? Sarebbe questo il biglietto da visita da presentare alla Confindustria nazionale e locale e alle banche che hanno sostenuto l’Ilva? E sarebbe questo inoltre il miglior inizio delle relazioni con i Sindacati generali e di categoria che sono unanimi nel difendere il presente e il futuro dello stabilimento tarantino – e gli impianti che gli sono collegati a valle come quello di Genova – naturalmente in logiche di piena ecosostenibilità? E sarebbe questo l’avvio di un sereno e proficuo rapporto con le città di Taranto e Genova, i cui amministratori vogliono un’Ilva radicalmente risanata, ma non certa dismessa? E sarebbe questo infine un messaggio gradito anche alle Autorità ecclesiastiche delle due città che vedono nell’Arcivescovo Monsignor Santoro e nel Cardinal Bagnasco due difensori dei rispettivi stabilimenti dell’Ilva, sempre in un quadro di piena sostenibilità ambientale e di tutela della salute e del lavoro delle comunità di cui sono amati pastori?
Personalmente non lo crediamo, o almeno non lo riteniamo politicamente utile neppure per le forze politiche che si accingono a formare il nuovo Esecutivo: forze fra le quali non mancano certo frange oltranziste che convivono però con ampi settori dei loro partiti molto più equilibrati.
Del resto la lettura di quanto testualmente contenuto nel documento contrattuale lascerebbe ampio spazio anche a valutazioni più attente ad una produzione siderurgica meno inquinante e non certo alla sua cessazione. Si scrive infatti nel contratto di governo: “Con riferimento all’Ilva, ci impegniamo, dopo più di trent’anni a concretizzare i criteri di salvaguardia ambientale, secondo i migliori standard mondiali a tutela della salute dei cittadini e del comprensorio di Taranto, proteggendo i livelli occupazionali e promuovendo lo sviluppo industriale del Sud, attraverso un programma di riconversione economica basato sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti per le quali è necessario provvedere alla bonifica, sullo sviluppo della green economy e delle energie rinnovabili e sull’economia circolare.”
Allora là dove si afferma in particolare che “si procederebbe alla progressiva chiusura delle fonti inquinanti”, perché si deve ipotizzare soltanto la chiusura dell’intero impianto ionico, e non invece la progressiva dismissione di sue specifiche sezioni che provocano inquinamento? E non ci riferiamo alla sua area a caldo – senza la quale, è bene saperlo, la fabbrica ionica non si reggerebbe economicamente – ma, ad esempio, alle cokerie che potrebbero essere sostituite sia pure in prospettiva dall’introduzione di forni elettrici con l’impiego del preridotto di ferro, naturalmente a costi di produzione o di acquisto compatibili con un acciaio collocabile sul mercato a prezzi competitivi.
Ma il preridotto di ferro si potrebbe incominciare ad usare già nelle cariche degli attuali altiforni, secondo le sperimentazioni avviate a suo tempo dal Commissario Enrico Bondi, con il supporto scientifico del Politecnico di Milano.
Inoltre l’avvio dei lavori per la copertura dei parchi minerali non è già un chiaro segnale in direzione del drastico contenimento di un potente fattore di inquinamento, costituito dallo sversamento delle polveri in giorni di particolare ventosità da nord?
Ma c’è dell’altro su cui conviene riflettere. Annunciare la chiusura sia pure graduale del Siderurgico ionico – a parte i drammatici effetti occupazionali ed economici ad ampio raggio sui quali ci siamo già ampiamente espressi in altra occasione – non significherebbe in realtà favorire la concorrenza estera della siderurgia italiana e, a ben vedere, la stessa Arcelor che a questo punto – qualora non riuscisse ad acquistare l’Ilva – potrebbe accontentarsi di vederla scomparire dal panorama dei suoi competitor europei?
E perché poi la nuova coalizione di governo – che dichiara peraltro di voler tutelare con maggiore fermezza gli interessi nazionali – dovrebbe regalare buona parte del mercato italiano dei prodotti siderurgici piani alla concorrenza straniera? E i ministri della Lega potrebbero accettare che i trasformatori dei materiali di Taranto che sono prevalentemente al Nord subiscano un danno così pesante derivante dalla chiusura dell’acciaieria ionica, ad oggi la loro principale fornitrice?
Un’ultima considerazione: se, come pare possibile, fosse chiamato alla guida del nuovo esecutivo il professore Giuseppe Conte – nostro autorevole conterraneo essendo nativo di Volturara Appula in provincia di Foggia, e che fra l’altro è anche componente della Commissione Cultura di Confindustria – siamo proprio sicuri che vorrebbe iniziare il suo mandato dando il consenso ad una dismissione sia pure graduale del Siderurgico di Taranto che aprirebbe una ferita profonda e non facilmente rimarginabile nel tessuto economico, sociale e culturale della sua regione di origine?