La Russia, che gioca sui mercati globali soprattutto nell’ambito delle materie prime, sia oil che non-oil, non utilizza la stessa logica, nel rapporto con l’Africa, che hanno i Paesi occidentali, sempre unicamente alla ricerca di materiali, da trasformare in prodotti finiti. Nelle loro fabbriche, peraltro. Secondo gli studiosi più attenti, infatti, Mosca cerca, in Africa, soprattutto lo human capital, il capitale umano da sviluppare, le classi dirigenti da formare, poi le masse da addestrare e rendere produttive, in una visione, sempre integrata, dello sviluppo tra grande Eurasia continentale e Africa. Per i russi, il loro rapporto con l’Africa, essendo la situazione geoeconomica nelle materie prime del tutto simile, ovvero di due grandi riserve di materie prime, è unicamente sinergico. Ma, e questo viene spesso ripetuto dagli esperti di Mosca, si tratta sempre di tempi lunghi e di operazioni a forte tasso geopolitico e strategico.
Quindi, dicono gli analisti di Mosca, la logica del rapporto tra Russia e Africa è quella della unione tra le best practices, le migliori procedure, sia della Russia che del Continente Nero per, poi, creare una sinergia che avrà, in futuro, sempre secondo Mosca, un effetto geopolitico e economico globale. Gli occidentali vogliono cercare beni e risorse essenziali per la loro sopravvivenza tecnologica e industriale, i russi vogliono sostenere l’Africa per toglierla a Usa e Ue; e per utilizzarla come pivot di un futuro sviluppo di Mosca come operatore globale, economico e strategico. Sono state, però, le relazioni economiche e politiche successive alla caduta dell’Urss a essere, per prime, sacrificate sull’altare della, allora gravissima, crisi economica russa. Crisi che è stata letta, dall’establishment attuale di Mosca, come una malgestita colonizzazione del grande reservoir russo delle materie prime. Appunto lo stesso paradigma che, oggi, viene applicato nel grande spazio africano. Poi, abbiamo avuto la complessa svolta, ordinata da Vladimir Putin fin dal suo arrivo ufficiale al potere, il 7 maggio 2000, da un Pil russo di soli 764 milioni di Usd nel 2006 ai 2096,8 milioni, in valuta americana, del 2014 fino ai 1248,550 del 2016. Il Fondo Monetario, peraltro, prevede che le prossime espansioni del Pil di Mosca saranno derivate quasi unicamente dall’espansione del mercato interno. È questo l’esempio dato dai giochi di Sochi e dalle iniziative internazionali del sistema russo. Se, quindi, come ci spiegava Keynes nella sua antica masempre valida antica General Theory, la crescita economica e la stessa industrializzazione, capitalistica o meno, sono dipendenti dalla elaborazione secondaria delle materie prime e dalla innovazione market-driven, generata dal mercato e dalle sue richieste; allora è ovvio che l’Occidente deve espandersi, in modo nuovo, là dove tali materie si trovano, tra Africa, Asia e America Latina; e che la nuova geopolitica ripeterà quella analizzata da Georg Wilhelm Pahl negli anni ’30: la guerra per i materiali primari.
Che si trovano dove pare a loro e non sono riproducibili, mentre le tecnologie lo sono. La Federazione Russa è quindi omogenea, come struttura produttiva di base, a molti dei Paesi ricchi di materie prime che compongono, come peraltro la Russia, il gruppo dei Brics. Se, infatti, andiamo a leggere oggi il “Concetto di Politica Estera” della Federazione Russa approvato dal presidente Medvedev nel luglio 2008, vediamo che il tema della collaborazione tra Mosca e i Paesi africani, oltre a un rafforzato dialogo con il G-20 e il G-8, sono alcuni dei temi fondamentali della proiezione di potenza moscovita nel globo. Nel “Concetto” del 2017, peraltro, si esplicita chiaramente che: “la Russia intende rafforzare la sua posizione nelle relazioni economiche globali e prevenire ogni discriminazione contro i beni, i servizi e gli investimenti russi”. L’Africa e la Federazione Russa, insieme, detengono il 60% delle risorse naturali del globo. È sempre bene ricordarlo. Il problema fondamentale è, quindi , per Mosca, quello di essere talmente forti, sul piano internazionale, legale e finanziario, da evitare lo sfruttamento rapido, feroce, a basso prezzo e senza concambio politico e militare delle proprie risorse naturali. E di quelle di Paesi africani amici. Il “fattore risorse”, malgrado molti pensino il contrario, immaginando una impossibile “società del terziario”, “dei servizi” o, ancora più umoristicamente, “della conoscenza”, è essenziale per analizzare lo stato attuale del mercato-mondo.
Tra il 1960 e il 2009 la popolazione mondiale è cresciuta dai 2,5 miliardi ai 6,6, e oggi, con i dati del 2017, la massa di abitanti del globo è arrivata alla previsione, indubbiamente scioccante, di ben 7,6 miliardi di esseri umani nel 2018. Un aumento del 400% della massa umana mondiale, sviluppatosi in tutto il ventesimo secolo, che arriverà, secondo i dati dell’Onu, a una misura di circa 10 miliardi di esseri umani viventi, tra il 20180 e il 2100. La estrazione di petrolio, asse dell’attuale economia russa, che si diversificherà anche attraverso questi nuovi rapporti tra materia prime russe e africane, è passata, dai 2,5 milioni di barili/giorno del 1960 ai 4,0 milioni del 2009 fino ai 6,9 milioni di barili/giorno quest’anno, con una previsione di crescita globale dei consumi petroliferi, stabile, di 1,2 milioni di barili/giorno. La produzione di gas naturale globale è passata dai 190 milioni del 1960 ai 3900 circa del 2018, con un outlook sui consumi che prevede una forte crescita, maggiore di quella dei petroli, nei consumi globali. Il fatto è che questi trend di crescita dei consumi di materie prime valgono non solo per i prodotti energetici, ma per tutti i tipi di minerali e materie prime non-food. Non vi è crisi monetaria, casuale o montata ad arte, che possa quindi manovrare questa condizione stabile dei mercati e delle allocazioni di materie prime.
Ogni manipolazione con i derivati o altre formule finanziarie non potrà mai trasformare gli equilibri materiali del Pianeta. Ma, è bene notarlo, il 16% della popolazione mondiale risiede nei Paesi sviluppati, anche se, in quest’ultimi, la forbice sociale tra ricchi e poveri sta aumentando a vista d’occhio. Il “coefficiente di Gini”, l’indice della forbice tra ricchi e poveri, è oggi ottimale nei Paesi dell’Europa del Nord, mentre è bassissimo in Bolivia, Colombia e in generale nell’ America Latina. Ma anche in Gambia, in Namibia e in Sud Africa, con valori molto bassi, lo 0,66 o lo 0,50, in un contesto in cui il massimo di eguaglianza dei redditi è lo 0,50, data la misurazione di Gini in cui il massimo di equidistribuzione dei redditi è lo 0. Usa, Russia, Cina sono nello stesso range di equidistribuzione, tra lo 0,40 e lo 0,45, con la Cina che segue a ruota. Ma il 10% della popolazione più ricca possiede il 37% della ricchezza in Europa, il 47% in America Settentrionale, il 46% in Russia, il 41% in Cina, ma con il 55% della ricchezza in Brasile, Africa Subsahariana, India e, addirittura, il 61% in tutto il Medio Oriente. Israele escluso, naturalmente. Facendoci, allora, presagire uno scenario futuro che ricorda la teoria “dei tre mondi” di Mao Zedong. Con un primo mondo, ricorderete, unito tra paesi “capitalisti” e “revisionisti” (ovvero l’Urss, all’epoca, che si consumava nella follia della guerra fredda e nel confronto economico e militare tra Est e Ovest) il secondo, con i collaterali dei due Mondi che compongono la periferia del Primo e, infine, il Terzo Mondo, che sarà unificato e diretto dalla Cina rossa. Il 16% della popolazione sta nel Primo Mondo, quindi, che organizza la produzione e il consumo delle materie prime, ma ben il 53% della massa mondiale vive nei paesi in via di sviluppo.
Mentre, comunque, i paesi sviluppati, con il loro 16% di popolazione, consumano il 52% di tutte le materie prime estratte. Ecco, allora, il senso profondo della “guerra per l’Africa” che tutti, oggi, stanno compiendo, sia con mezzi convenzionali che con strategie indirette o di influenza. L’Africa è l’area primaria per l’estrazione di manganese, cromo, bauxite, oro, platino, cobalto, ormai al 94% estratto indirettamente da aziende cinesi operanti nel Continente Nero, poi il vanadio, diamanti, fosforite, fluorite. È poi, l’Africa, il secondo territorio di estrazione per rame, amianto, uranio, antimonio, berillio, grafite; e infine terzo nel mondo, sempre il continente africano, per le riserve di petrolio, gas naturale, mercurio e minerali di ferro. Ma l’Africa possiede anche rilevanti depositi di titanio, nickel, bismuto, litio, tantalio, niobio, sali di alluminio, tungsteno, pietre preziose. Insomma, il continente nero è strategico per tutte quelle materie prime che stanno caratterizzando le tecnologie della prossima rivoluzione scientifica e industriale che è oggi tipica delle economie nel Primo Mondo. Infine, Russia e Africa, altro elemento di affinità geoeconomica, sono le due grandi aree mondiali in cui non si è ancora manifestato lo sfruttamento rapido e spesso irragionevole delle risorse naturali. Difficoltà politiche, militari, di antiche e ormai superate egemonie coloniali o altro. Come, infatti, è già accaduto in Brasile e in alcune aree asiatiche.
La depauperazione delle risorse naturali, in America Latina, è più antica e profonda di quella ormai già in atto in alcune aree dell’Africa subsahariana. Ma non bisogna nemmeno dimenticare che la domanda per le materie prime crescerà, alla metà del nostro XXI secolo, del 50% o 60%, rispetto a quella attuale; mentre quello dei petroli, lo abbiamo già in parte visto, dovrebbe crescere, fino al 2030, di 113 milioni di barili/giorno, sempre secondo le informazioni statistiche russe. In gran parte confermate da quelle degli Usa. Gli Stati Uniti, anche questo è un segno della massima importanza, stanno aumentando però le loro importazioni dall’Africa ogni anno; e ciò va avanti dal 2005, con una crescita dell’import nordamericano dal continente nero del 10% annuo.
L’Ue, nello stesso periodo 2001-2015, ha invece calato le sue importazioni dall’Africa del 2,5%. Ma più del 70% delle importazioni negli Usa è solo per prodotti petroliferi, con i minerali e le altre materie prime non food africane che arrivano solo al 14-15% del totale dell’import statunitense. L’Agoa, il trattato che regola, dal 2000, gli scambi americani e africani, ha stabilito, pertanto, che 6400 prodotti di 40 Paesi africani entreranno negli Usa con la regola del duty free, ha indirettamente creato un milione di nuovi posti di lavoro africani ma, come sempre accade nei trattati di solo libero scambio, non produce partecipazioni per investimenti ma unicamente l’espansione, certamente importante, dell’export africano. Gli investimenti diretti di Washington in Africa, poi, sono oggi, comunque, in fase calante: le esportazioni americane nel continente sub-sahariano sono state ultimamente di 19 miliardi di Usd, mentre il commercio bilaterale è passato dai 100 miliardi di 2008 ai 39 miliardi di Usd nel 2017; una caduta delle importazioni nordamericane dovuta soprattutto all’aumento della autonomia energetica degli Usa. La Cina ha già peraltro finanziato, in vario modo, ben 3000 infrastrutture in Africa, ha poi concesso 86 miliardi di crediti commerciali ai governi africani, ha inoltre investito 6 miliardi l’anno, fino al 2025, in tutto il Continente. Nel 2015, durante la conferenza Focac, Form on China Africa Cooperation, il presidente Xi Jinping ha concesso un ulteriore fondo poliennale di finanziamenti, sempre di tipo commerciale, per 60 miliardi, ai quali se ne aggiungeranno altri 20 alla fine del mandato, nel 2025.
Pechino è così, già da oggi, il primo creditore dell’Africa, con il 14% di tutto lo stock del debito subsahariano. Il Foreign Direct Investment cinese nel continente africano è però ancora basso, visto che si tratta del 5% di tutti gli Fdi operanti nel continente, mentre sono ormai ben 10.000 le imprese, di proprietà cinese, soprattutto private, che operano in Africa. L’Ue ha poi lanciato la Africa-Eu Strategic Parnership nel 2007, operante tra l’Europa a 27 e 54 Paesi africani. Il quinto summit della partnership, tenutosi nel 2017 ad Abidjan, ha ripetuto l’assunto principale dal patto, quello del commercio reciproco, in un contesto in cui l’interscambio tra Africa (ovvero i 54 Paesi aderenti alla Africa-Eu) e Unione Europea è di circa 300 miliardi l’anno, mentre l’Unione ha garantito altri 54 miliardi extra per lo “sviluppo sostenibile”, qualsiasi cosa ciò possa significare nel continente nero. L’Ue, seguendo il non brillante concetto di scambio commerciale “paritario” che è tipico degli Usa, ha stabilito, peraltro, una serie di Epa (Economic Partnership Agreements) con altre 40 nazioni dell’Africa subsahariana sempre della Strategic Partnership, con trattati bilaterali che prevedono l’accesso privilegiato, in quelle aree, alle imprese europee, mentre saranno liberalizzate le importazioni, ma in un arco di tempo di 20 anni. Troppo tardi, troppo poco.
La Nigeria è contraria all’Epa, che sostiene essere un elemento di blocco della sua industrializzazione, mentre la Brexit ha molto affievolito la capacità della Ue di oenetrare i mercati e le classi dirigenti del continente nero. Per gli Usa, infine, vi è stato un recente investimento di 6,5 miliardi di Usd, in 14 Paesi africani, da parte della sola Millennium Challenge Corporation, capitali finalizzati a favorire l’integrazione economica inter-africana, una futura UE del Continente, e a creare il clima migliore per gli investimenti nordamericani privati di natura standard. Nel febbraio 2018, poi, il governo di Washington ha definito la costituzione del Build Act, ovvero le norme sulla Better Utilization of Investment Leading to Development, una nuova agenzia federale che sommerà insieme alcune funzioni della Overseas Private Investment Corporation e dell’Usaid, che si occuperà soprattutto di equity investment nei Paesi subsahariani. Ma torniamo alla Federazione Russa. Facendo perno su una forte relazione bilaterale con l’Egitto di Abdel Fattah al Sisi, Mosca intende oggi sviluppare una serie di legami, sempre e soprattutto bilaterali, con molti Paesi africani, soprattutto quelli che hanno un più difficile rapporto con Ue e Usa. Alla inaugurazione dell’attuale presidenza di Vladimir Vladimirovic Putin, c’erano persone di non trascurabile rilievo strategico per l’Africa: Cyril Ramaposa, Presidente della Repubblica Sudafricana, ovviamente Abdel Fattah al Sisi dall’Egitto, Emmerson Mnangawa dello Zimbabwe, Joao Laurenco, Presidente dell’Angola, Hage Geincob della Namibia e infine Omar al Bashir, capo militare e politico del Sud-Sudan. Per l’Egitto, Putin sta lavorando a una centrale nucleare e a una zona industriale speciale, oltre a un pacchetto di aiuti e investimenti pari a circa 32 milioni di Usd. Una operazione che dovrebbe concludersi nel 2022. Per lo Zimbabwe, ormai un paria politico per tutto l’Occidente, il rapporto con Mosca e con Pechino è fondamentale per il flusso costante degli aiuti economici dai due paesi asiatici; aiuti che presto si trasformeranno in commercio bilaterale e nella creazione di una zona economica russa autonoma nel sud di quel Paese, oltre alla modernizzazione dell’agricoltura e alla creazione di alcuni settori industriali legati soprattutto ai derivati agricoli. Ma ci sono anche, e soprattutto, 3 miliardi di Usd per gli investimenti russi in una grande miniera di platino.
In Angola opererà, su diretto ordine di Putin, la Alrosa, il leader industriale pubblico russo dei diamanti, che sfrutterà uno dei maggiori depositi diamantiferi del mondo, quello di Luaxe; poi per il sud Sudan la Federazione Russa pensa ad ulteriori investimenti in infrastrutture, ben diversi da quelli che intendono fare gli europei e gli Stati Uniti. Ma Mosca intende sviluppare, soprattutto, i vasti giacimenti petroliferi che il regime di Al Bashir, nel Sudan del Sud, detiene ai confini del suo Paese, mentre per il Sud Africa vedremo cosa porterà, in termini di relazioni bilaterali con la Russia, la presidenza, da parte di Capetown, del Brics durante il prossimo luglio 25-27, in questo anno, il 2018. I Brics, lo ricordiamo, rappresentano il 26% della superficie mondiale e il 42% della popolazione mondiale. Che, qui, nel Terzo Mondo, cresce, mentre l’inverno demografico europeo e nordamericano fa temere il peggio per i nostri tassi di sviluppo e i costi, ormai insostenibili, del welfare e dei sistemi pensionistici, mentre si abbassa, per ovvi motivi, la produttività media dei fattori in tutto l’Occidente. E, sempre per sottolineare il rilievo dei rapporti tra la Federazione Russa e gli stati africani, vi è un nesso evidente tra i trading partners di Mosca in Africa e i partecipanti, sempre come Stati, alle manovre congiunte bilaterali che i russi mettono in atto, sempre più spesso, nel continente nero.
Peraltro, i peacekeepers di Mosca, sempre nel continente nero, sopravanzano spesso quelli provenienti da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, spesso gli “uomini verdi” russi sopravanzano, in Africa, quelli delle altre potenze occidentali sommate insieme. Inoltre, secondo Standard&Poor’s, ma anche sui dati provenienti da altre aziende di ricerca finanziaria, l’Africa subsahariana è, per certi rispetti, più attraente per il business di altre aree del pianeta, ovvero delle Frontier Emerging Markets 37 Paesi in totale, che ospitano nei loro elenchi aree come la Slovacchia, la Slovenia, il Kazakhistan, Cipro, l’Estonia, gli Emirati Arabi Uniti. In queste zone, i militari Usa importano il 50% e oltre solo dall’ Africa Subsahariana, almeno per quanto riguarda i minerali utili per la costruzione dei bombardieri a lungo raggio, mentre le importazioni militari di cobalto, sempre verso gli Usa, sono al 75% e comunque sempre dai Paesi di quell’area. E ancora, l’Africa sarà terra di conquista della Federazione Russa, insieme alla Repubblica Popolare Cinese, nella misura in cui gli investimenti dei Paesi maggiori saranno infrastrutturali, durevoli e basati sulla formazione delle classi dirigenti locali e, soprattutto, delle loro forze-lavoro locali.