Dopo le elezioni politiche del 1994, quando il Parlamento fu invaso da frotte di inesperti leghisti del Nord e dagli eletti in un partito appena nato come Forza Italia, nella rubrica che aveva sull’Espresso Paolo Guzzanti scrisse che improvvisamente la sua corposa agenda telefonica era da buttare. Una metafora della rivoluzione che si era appena compiuta. Assistendo al giuramento del governo presieduto dal professore Giuseppe Conte si prova un’analoga sensazione di rivoluzione in atto, anche se il Movimento 5 Stelle è corposamente rappresentato in Parlamento già dalle elezioni del 2013 e la Lega (cancellata da tempo la parola “Nord”) è ormai avvezza ad amministrare la cosa pubblica, come dimostrano le più importanti regioni settentrionali.
Eppure, questo curioso, anomalo, inatteso governo gialloverde (o chiamatelo come volete) sta sfilando davanti al capo dello Stato e al segretario generale del Quirinale giurando di essere fedele alla Repubblica e di osservarne fedelmente la Costituzione. Questo è niente. Quando, tanto per fare due esempi, Luigi Di Maio siederà sulla super poltrona che raggruppa i ministeri dello Sviluppo economico e del Lavoro o Danilo Toninelli si troverà su quella delle Infrastrutture e Trasporti (in entrambi i casi, dicasteri determinanti per il futuro di qualunque nazione) si porranno certamente una domanda: e adesso?
Sono le 15.52 quando una frotta di parenti dei ministri entra nel Salone delle Feste del Quirinale con aria spaesata e incredula di fronte al muro di fotografi e di telecamere. Chi se la ride è Rocco Casalino, uomo comunicazione del Movimento 5 Stelle. Tre minuti dopo tocca a Giancarlo Giorgetti, che giurerà solo successivamente nelle mani del presidente del Consiglio come sottosegretario alla Presidenza e per questo si mescola con il pubblico. L’ingresso trionfale è quello di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio alle 16 in punto e via via tutti i ministri vanno a sedersi sulle poltrone: l’emozione e la tensione si tagliano a fette, Di Maio ha un sorriso a 32 denti che occupa trequarti della sala, Barbara Lezzi (ministro per il Sud) ha un’evidente respirazione irregolare e impiegherà un po’ per calmarsi, Enzo Moavero Milanesi (Esteri) e Paolo Savona (Affari europei) scherzano seduti accanto. “Quello vicino è Fontana?” chiede una cronista. Sì è Lorenzo Fontana, vicesegretario della Lega, neo ministro per la Famiglia e la disabilità e vicepresidente della Camera dimissionando.
Ogni dettaglio conta in queste cerimonie. Alle 16.08 il presidente Sergio Mattarella entra con il neopresidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che sillaba la formula di rito e Mattarella gli sorride: è fatta. Tocca finalmente a Salvini: cravatta e calzini verdi, giacca sbottonata (come molti altri ministri), piglio severo nel calcare le parole “lealmente” ed “esclusivo” riferite a Costituzione e interesse della Nazione. Di Maio continua a sorridere e dubita che sia vero mentre va a giurare. Scoprirà che è tutto vero. Molti altri mostrano le rispettive personalità: l’avvocato Giulia Bongiorno, ministro per la Pubblica amministrazione, non smentisce il consueto piglio giudiziario e giura con un’espressione che incute timore; Paolo Savona scatena i flash dei fotografi e riceve qualche parola di augurio in più da Mattarella. Sfilano l’esperto Moavero e il neofita Alfonso Bonafede (Giustizia) prima di un pizzico di marzialità: la professoressa Elisabetta Trenta, ufficiale della riserva selezionata dell’Esercito e ministro della Difesa, giura sull’attenti e di più fa il neoministro dell’Ambiente, il generale dei Carabinieri forestali Sergio Costa, che da buon militare sbatte i tacchi di fronte al capo dello Stato tra la sorpresa dei presenti. L’emozione del professore Giovanni Tria, ministro dell’Economia, gli fa incrociare le dita dietro la schiena, ma per fortuna non mostra le corna come fece Katia Bellillo nell’ottobre 1998, ministro per gli Affari regionali del governo D’Alema. Oggi sarebbero virali sul web, anche se Tria qualche scongiuro nascosto lo farà pure, vista la gatta da pelare che gli è toccata.
Di Maio continua a sorridere dopo aver ammirato gli stucchi di quella Sala: il Quirinale un po’ ha imparato a conoscerlo, ma essere seduti lì significa ben altro. Mentre sfilano gli ultimi ministri, accanto a lui Salvini, che condivide con il capo politico del M5S la carica di vicepresidente del Consiglio, mette su quella faccia da cattivo ministro dell’Interno che sottintende “Adesso sono fatti vostri, cari immigrati”. Forse non si rende conto appieno che la solidità del governo dipenderà molto da quello che realmente riuscirà a fare al Viminale.
Ora non resta che attendere i primi provvedimenti dell’esecutivo, con una vecchia regola sempre valida: mai buttare i numeri di telefono, possono sempre tornare utili.