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In attesa di Bolton, Pompeo chiarisce a Putin le condizioni Usa per il negoziato

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Secondo una fonte austriaca del giornalista che si occupa di Russia nel sito americano Al Monitor, Maxim Suchkov, il meeting tra il Presidente americano Donald Trump e l’omologo russo Vladimir Putin ha già un luogo e un giorno fissati: Vienna, domenica 15 luglio. Il Secret Service sarebbe già in Austria per i preparativi, e se ne deduce che, se fosse, altrettanto stanno facendo i servizi russi che curano la sicurezza del capo del Cremlino.

Nei prossimi giorni, dopo aver fatto visita agli alleati che in questo momento sono più filorussi, gli italiani, e più anti-russi, gli inglesi, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, John Bolton, sarà a Mosca: il suo viaggio, annunciato soltanto la scorsa settimana, servirà a definire i dettagli.

È frutto di una preparazione attentata e misurata, ma non troppo discreta, all’incontro tra i due leader, che è in corso da mesi. Trump, secondo una visione che potrebbe definire storica, vuole mantenere aperto il canale di contatto con Putin, e in questo momento sta rinvigorendo la spinta. Uno dei motivi: non vuole far scivolare Mosca nelle mani di Pechino, e certamente le photo opportuniy del presidente russo sorridente e trionfante accanto al cinese Xi Jinping al summit della Shanghai Cooperation Organisation, nei giorni in cui l’americano era impegnato a tenere a bada gli amici europei, sono state un campanello d’allarme sulla necessità di muoversi con impellenza.

Se la Casa Bianca pressa per vedere Putin, da altri lati dell’amministrazione arrivano freni e bilanciamenti: un modo per ricordare che sì, i due presidente potrebbero incontrarsi a luglio e/o altre volte, parlare, discutere, dialogare, ma per il momento la postura americana sulla Russia resta severa. Putin può essere un interlocutore, ma – almeno a giudicare dai fatti che circondano la situazione – non riceverà troppi sconti.

La scorsa settimana, per esempio, mentre le notizie della visita di Bolton (e di conseguenza dell’incontro Trump/Putin) prendevano piede, la portavoce del dipartimento di Stato americano, Heather Nauert, diffondeva uno statement in cui sottolineava le preoccupazioni americane per il crescente numero di prigionieri politici e religiosi detenuti dal governo russo. “Chiediamo alla Russia di rilasciare i prigionieri e di smettere di usare il sistema legale per sopprimere il dissenso e la pratica religiosa pacifica [delle minoranze]”, diceva la voce del segretario Mike Pompeo.

Nauert parla (in un thread durato per cinque giorno, collegato al tweet con cui ha diffuso la dichiarazione) per esempio dei testimoni di Geova, che in Russia sono stati banditi come “estremisti” (l’accusa formalizzata direttamente dal ministero della Giustizia è stata di “diffondere materiali stampati proibiti” che “incitano all’odio contro altri gruppi”) con una sentenza confermata a luglio del 2017 dalla Corte Suprema, che ne ha ha vietato l’attività nel paese e ordinato il sequestro dei beni a favore dello Stato.

O ancora di alcuni prigionieri politici catturati in Ucraina, dove Mosca ha spinto l’annessione della Crimea e assistito i movimenti separatisti dell’Est e tutt’ora si rifiuta di implementare gli accordi di deconflicting decisi a Minsk tre anni fa. Il reato di estremismo, però, copre uno spettro piuttosto ampio in Russia, ed è spesso lasciato a discrezione della polizia stessa se agire o meno nel perseguirlo, spesso con fini politici.

“Pompeo mette in chiaro che l’agenda è tosta, al di là dell’incontro e della rincorsa di Bolton”, ci spiega una fonte diplomatica molto ben inserita nelle dinamiche di Washington. Ci sono contraddizioni che, nonostante il contatto sia visto da Trump come una necessità strategica per gli Stati Uniti, l’amministrazione sembra non intendere lasciare indietro, anche perché sulla lettura della policy con la Russia pesano le posizioni dei congressisti: sono loro che hanno spinto per l’approvazione di nuove sanzioni contro Mosca, per esempio, a cui Trump non ha potuto dire no anche perché pressato da branche dell’amministrazioni che vogliono severità con Putin.

Ancora un esempio: negli ultimi due giorni le forze assadiste hanno bombardato villaggi in mano ai ribelli nel sud del paese, operazioni che escono da un accordo di de-escalation firmato da russi, tutori per Damasco, americani e giordani a luglio dell’anno scorso. La Siria è uno di quei tavoli di confronto complessi in cui Washington e Mosca vengono a contatto, con tutte le relative incoerenze e su cui i primi mantengono una linea di bassa ingerenza e grosso peso politico: gli Stati Uniti, per esempio, hanno già avvisato sulle “gravi ripercussioni” che la violazione dell’intesa potrebbe portarsi dietro.

 

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