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Dopo successo della Francia e crisi sudamericana, che ne sarà del calcio globale?

francia

Non sempre vince la squadra migliore. La Francia è campione del mondo, malgrado limiti evidenti e nessuna concessione allo spettacolo. La Croazia che le ha conteso la Coppa, ha fatto vedere un football attraente, ancorché non eccelso, ma è “caduta” su due errori evitabilissimi. Quando si dice che gli dèi pallone si distraggono non si esagera affatto. A Mosca hanno posato il loro sguardo i benevolo sui francesi e ai croati hanno concesso la gloria del secondo posto facendoli riconoscere come i vincitori “morali” del torneo. Una presa in giro come sono abituati a fare gli dèi sapendo di regalare agli sconfitti l’effimero trionfo dei titoli dei giornali che verranno dimenticati in poche ore.

La vittoria che conta è, per la cronaca e per la storia, della Francia di Deschamps e Macron. Zlatko Dalic, l’allenatore con il rosario in tasca e Kolinda Grabar-Kitarovic, l’affascinante presidente della Repubblica croata, non potranno accontentarsi dell’onore che da chiunque gli viene concesso: aver sfiorato l’impresa storica giocando il miglior calcio che si è visto in questa edizione del Mondiale. Alla Francia il merito di aver giocato come poteva e sapeva, consapevole delle sue possibilità, forte della capacità di sfruttare gli errori altrui e trovando giovani come Mbappé in grado di trascinarla fino al traguardo finale. Alla Croazia l’abbraccio di quasi tutto il mondo che ha tifato per essa riconoscendola come compagine unita da un orgoglio nazionale che quasi non si vede più sui campi di calcio. I croati, per quanto dispersi nei cento club europei (e non solo) che se li contendono, hanno dato l’impressione di essere motivati ben oltre il raggiungimento dell’obiettivo calcistico.

Un po’ come accadeva all’Argentina e al Brasile d’altri tempi: ricordate Passarella e Kempes nel 1978, Maradona nel 1986? E ancora: Pelè e Garrincha nel 1958? Tutti dovevano dimostrare qualcosa, il football era lo strumento planetario per farlo. La Croazia, dopo essere ridiventata una nazione, aveva la necessità d’incantare il suo popolo (quattro milioni di abitanti) con una prestazione che la proiettasse al di là dei lutti, delle sofferenze, delle sopraffazioni recenti e delle avvilenti sottomissioni del passato titino. Ci sono sentimenti identitari, politici, culturali, etici e civili in una partita di calcio. Le squadre-comunità affascinano e trascinano; le raccogliticce compagini di miliardari che si ritrovano di tanto in tanto ad indossare le maglie della propria nazionale potranno far vedere lampi di genialità da parte dei singoli, ma difficilmente attraggono come accadeva una volta.

La Francia ha vinto anche perché la maggior parte dei suo giocatori hanno avuto fame di vittoria. I Mbappé, i Pogba, i Kanté – gli “africani”, insomma – sono cresciuti nelle banlieues, hanno preso a calci fin dalla più tenera età improbabili palloni sulle strade sconnesse delle periferie parigine e delle altre città francesi dove il destino li voleva relegati per sempre. Non hanno frequentato scuole calcistiche affollate dai rampolli della buona borghesia. Francesi come i loro coetanei più fortunati (soltanto gli imbecillii possono considerarli un’altra cosa, di un’altra inesistente nazionalità, dimenticando le ascendenze algerine, marocchine, antillane, e via dicendo dei loro padri e nonni “educati” da una Francia che non si sentiva matrigna e li accoglieva nella nuova patria riconosciuta da ognuno non come nemica), i neri sono diventati l’anima – e non da ieri – della nazionale francese perché il sacrificio e le privazioni li hanno fatti crescere (e magari arricchire) come accadde a quel piccolo Edson Arantes do Nascimento che a 17 anni sbaragliò la potente Svezia perfino trasgredendo le indicazioni del grande Feola estasiato dal ragazzino venuto dal nulla e destinato a diventare il primo fenomeno globale del football.

Certo, i Lloris e i Griezmann non sono estranei alla “rinascita” francese, ma l’anima dei nuovi padroni del calcio d’Oltralpe ha fatto sì che campioni non sempre in grado di esprimersi al meglio potessero sollevare la Coppa più ambita.

Si possono fare raffronti tecnici di vario genere e, ovviamente, con risultati stridenti raccontando il Mondiale russo, ma resta il fatto che le squadre più idonee a vincerlo sono davvero le prime quattro: le altre, per motivi diversi, hanno tutte deluso, e mi riferisco alle candidate di sempre al titolo: Argentina, Brasile, Uruguay, Germania, Spagna. Non ci metto il Portogallo perché non è una squadra, ma un uomo che gioca contro undici – fuori concorso, dunque, per mancanza di requisiti oggettivi. La “caduta degli dèi”, come enfaticamente è stata definita l’uscita di scena dei Messi e dei Neymar in verità è stato un ridicolo capitombolo.

Ma li avete visti gli argentini guidati da un indefinibile selezionatore che sbaglia non soltanto la formazione, ma anche il look? E che dire di un narcisista che immaginiamo più incline a preoccuparsi della sua capigliatura e ad orchestrare sceneggiate da cascatore complessivamente costate tredici minuti di tempo perduto che alle tecniche per saltare l’avversario, con l’aggravante che porta sulla sua maglia verde-oro quel numero dieci che da solo dovrebbe dargli la forza di andare a a rete con la leggerezza dei campioni di un tempo? Inguardabili. Scrivono i giornali che l’Albiceleste e la Seleçao dovranno rifondarsi, ma con chi, cominciando da dove? Il tempo dirà se i sudamericani che ci estasiavano ritorneranno ad essere quelli che erano. Sarà improbabile in tempi brevi, almeno fino a quando non capiranno che giocando come gli europei non saranno più come erano e come dovrebbero essere. Del resto se quasi tutti giocano nei club del nostro Continente, non ci resterà che la ieratica e stupenda icona di Tabarez, tecnico dolente e mitico di un’Uruguay sfortunata, che ha dato una lezione di stile a tutto il circo calcistico con quelle stampelle sulle quali si poggiava malamente e guidava, nonostante tutto, la Celeste verso un traguardo al quale mai, neppure per un secondo, ha rinunciato a credere. Non ha sconfitto la malattia, ma ha dominato il destino. Tabarez è il vincitore morale del Mondiale.

E dopo lui ci hanno incantato per motivi diversi, i giapponesi mai domi che promettono scintille nel prossimo futuro; gli islandesi non proprio all’altezza degli Europei di due anni fa, ma sempre effervescenti e sorprendenti; un portiere come Ochoa, il migliore del mondo a mio giudizio, seguito soltanto dall’iraniano Beiranvand, pastore nomade trovatosi quasi per caso a difendere la porta della nazionale; l’uscita dal campo di Cavani sostenuto amorevolmente da Ronaldo; l’eleganza del ct inglese Southgate, e non solo per il panciotto; gli ammirevoli svizzeri davvero sorprendenti sotto la guida di Petkovic snobbato in Italia.

Già, l’Italia. No, non mi è mancata. Avrebbe sfigurato contro una qualsiasi delle squadre che hanno disputato la fase finale. Spero che abbiano seguito il torneo tutti gli improbabili interpreti della qualificazione mancata. E soprattutto che i club si rendano conto che senza una rifondazione del movimento calcistico nazionale ogni ambizione resterà frustrata.

Una grande Nazionale di calcio non è soltanto un investimento sportivo, ma anche politico-comunitario. E nel football globalizzato vale la stessa verità che viene in evidenza quando si discute di economia e sovranità: gli Stati-nazione sono gli unici antidoti all’indifferenziazione, all’omologazione culturale, alla uniformità. Un calcio “differente”, espressione di una cultura che ha le sue caratteristiche e i suoi “fondamentali”, come da tempo riconosciuto, non può sottrarsi a un ripensamento radicale. Se le frontiere sono cadute, non è detto che non si possano valorizzare le risorse che si hanno, senza respingere nessuno, ovviamente a patto che non si privilegino brocchi che tolgano il posto a possibili campioni soltanto per convenienza e per rifilare bidoni ai tifosi. Come accade purtroppo in Italia, da tempo immemorabile.

In Francia non è così. E la piccola – come nazione – Croazia si regola in maniera diversa, ma con gli stessi sostanziali risultati: manda i migliori a farsi le ossa e a guadagnare milioni di euro in Italia, in Spagna, in Germania, ma quando li chiama sono sempre pronti al punto di pagarsi con la loro classe il biglietto per l’Olimpo calcistico dal quale nessuno li caccerà più.

Tra Parigi e Zagabria si è cominciato a scrivere una nuova pagina del calcio mondiale. Tra un po’ toccherà all’Oriente, da Teheran a Tokyo. Credo che il Sudamerica vivrà a lungo di memorie. E di nostalgie.


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