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La Russia vuol giocare la sua partita in Libia (con l’Italia)?

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La Russia potrebbe aver creato due postazioni militari discrete in Libia, una a Tobruk e l’altra a Bengasi. Il controllo delle basi è affidato a un corpo di spedizione acquistato dal contractor Wagner, famoso per essere impegnato in Siria al posto dei soldati regolari e in Ucraina sotto le vesti degli “omini verdi” che invasero la Crimea, e per essere riconducibile al cerchio ristretto putiniano. Non solo però qualche professionista di operazioni speciali, ma sul campo i russi avrebbero messo — o avrebbero l’intenzione di, tutto al condizionale — anche dei sistemi anti-aerei S-300 e missili antinave Kalibr.

Questo genere di notizie gira da un po’ di tempo: escono dalla Libia, ne hanno parlato fonti locali anche con Formiche.net, ma sono sempre da prendere con le pinze e da tarare. In quella zona della Libia – Tobruk, Bengasi – vive il controllo del maresciallo di campo Khalifa Haftar, signore della guerra dell’Est con ambizioni politiche, che da sempre si oppone al piano di riunificazione del paese che l’Onu (fortemente sostenuto da Italia e Stati Uniti) ha affidato al suo rivale misuratino Fayez Serraj, che da tre anni ha installato il suo tentativo di governo a Tripoli (non senza difficoltà, nonostante la legittimazione della Comunità internazionale).

Quando dalla Libia (e in generale da certe aree di crisi, ndr) arrivano notizie del genere la prima cosa da valutare è la tara propagandistica. La Russia ha dato sostegno ad Haftar, insieme a Egitto ed Emirati Arabi (e meno ufficialmente alla Francia), e lo ha fatto anche con gesti simbolici: a gennaio dello scorso anno la grande portaerei “Ammiraglio Kuznetsov”, rientrando da un viaggio che da Murmask l’aveva portata in Siria (tra incidenti tragicomici), si era fermata a Tobruk e lì aveva ospitato per qualche ora il feldmaresciallo libico. A bordo c’era stata anche una videoconferenza con il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, e quando il signore dell’Est era ridisceso a terra aveva annunciato un vago sostegno da parte di Mosca, anche dal punto di vista militare.

Entrambi, sia il libico che i russi, sono sulla stessa traiettoria filosofica quando affrontano certe situazioni: parlano di lotta al terrorismo (Haftar in effetti ha combattuto sacche estremiste a Bengasi, anche gruppi affiliati all’Is) in modo da nascondere con qualcosa di ineccepibile certe ambizioni politiche.

Ad agosto dello scorso anno, Haftar è volato a Mosca, s’è incontrato con il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, con il delegato presidenziale per la crisi, Lev Dengov, e con alcuni alti funzionari della Difesa. A settembre ha diffuso pubblicamente una sorta di appello, una richiesta di aiuto, al presidente Vladimir Putin – che però non ha incontrato quando è stato in Russia per ragioni di protocollo ed equiparazione diplomatica (Haftar non è ufficialmente legittimato, Putin lo tiene a distanza per ragioni di credibilità). Nella richiesta di una mesata fa, Haftar diceva che per risolvere la crisi in Libia sarebbe stata necessaria “l’assistenza diplomatica della Russia, l’intervento diretto del presidente Putin e l’espulsione di attori stranieri come Turchia, Qatar e Italia per evitare che questi manipolino il destino dei libici” – Turchia e Qatar sono considerati sostenitori esterni di alcuni gruppi politico-militari di Misurata e Tripoli, l’Italia è attualmente il maggiore sponsor internazionale di Serraj, che ha una legittimazione territoriale sulla fascia orientale grazie ad accordi con le milizie misuratine e tripoline.

Sul dispiegamento di armi non c’è niente di certo – molto possibile la presenza dei contractors della Wagner, più difficile quella dei sistemi anti-nave e anti-aerei – anche se a parlarne pubblicamente è stato Maxim Suchkov, editor per la Russia del sito americano Al Monitor, esperto del Valdai Club e del Russian Council, di solito ben informato. In più ci sono segnalazioni che arrivano da Londra, con il Regno Unito che in questo momento – dopo il caso Srkipal – ha messo Mosca nel mirino e controlla dinamiche spostamenti. È chiaro che – e qui sta l’aspetto propagandistico per Haftar – far trapelare di avere le spalle coperte dalla Russia (che se ha inviato quei dispositivi certamente non li ha lasciati in mano a una seppur fidata azienda privata, ma avrà messo in Libia qualche consulente) per il maresciallo dell’Est è un rafforzamento in termini militari, ma soprattutto politici.

Per l’Italia rappresenta (fosse vero lo schieramento o semplicemente uno spin pro-Haftar) un interesse prioritario sia sotto l’aspetto economico che politico, con i piani che si intrecciano nella dimensione strategica che ha la Libia per Roma. Quando il 12 novembre inizierà la due giorni programmata dalla conferenza italiana di Palermo per chiudere un quadro generale per la rappacificazione libica, certi equilibri saranno importanti. Ieri, durante una visita a Mosca, il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha confermato che il presidente Putin è tra gli invitati alla riunione siciliana, e con lui l’Italia spera di portarci l’americano Donald Trump (che però molto probabilmente delegherà al massimo il segretario di Stato, sempre che il risultato fresco fresco delle Midterms permetta sbilanciamenti dell’amministrazione).

Dalla presenza di questi attori di livello presidenziale dipende il successo della conferenza internazionale. Roma è piuttosto in ritardo dal punto di vista organizzativo, però, proprio perché ancora in questo gioco di equilibri nessuno vuol muovere i propri pesi.

Haftar s’è detto interessato dalla riunione organizzata dall’Italia a Palermo, ma non ha nemmeno lui confermato la sua presenza: che invece è cruciale, visto che Serraj non ha una forza dirompente e per riunire il paese è necessario trattare con l’uomo dell’Est. Per questo conta molto il senso che Mosca vuol dare al proprio coinvolgimento (ragionamento anche questo che va al di là se sia vero o meno lo schieramento militare): “Russia e Italia mantengono un dialogo strutturato a diversi livelli sulla problematica libica. Crediamo che sia un imperativo obbligato quello di lavorare con tutte le forze libiche, mentre l’altro principio che ci guida, e che è condiviso anche dall’Italia, è evitare ultimatum e scadenze artificiose” ha detto Lavrov insieme a Moavero.

Chi scommette sulla stabilità è l’Eni, che ha annunciato in questi giorni di aver chiuso con British Petroleum un accordo per rilevare il 42,5 per cento delle quote di esplorazione dei giacimenti sulla terraferma nel bacino di Ghadames e offshore davanti a Sirte (un tempo capitale dello Stato islamico in Libia). I giacimenti che Bp aveva in concessione (per l’85 per cento, col 15 in mano della National Oil Corporation libica) erano fermi dal 2011, dallo scoppio della guerra civile: durante la firma dell’intesa a Londra, il Ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, ha detto che c’è “l’obiettivo di rilanciare le attività di esplorazione e sviluppo e di promuovere un ambiente favorevole agli investimenti nel paese”.

Certe dinamiche indicano che in questo momento qualcosa per la stabilizzazione si sta muovendo nel concreto: poi servirà capire quelle due basi, ammesso che ci siano, cosa significheranno nel prossimo futuro. Però qualche giorno fa al Russian Energy Week (REW) forum di Mosca, Roman Panov, l’ad di RosGeo (società statale russa specializzata in esplorazioni geologiche) ha incontrato Mustafa Sanallah, capo della NOC libica (che poi è volato a Londra per firmare quell’accordo con Descalzi e il Ceo di BP). Tema delle riunioni moscovite: accordi bilaterali e attività esplorative. Il giorno seguente Sanalla ha parlato anche con Rustam Khalimov (vicedirettore della azienda energetica russa Tatneft) sempre della possibilità di nuovi EPSA, Exploration and Production Sharing Agreement, ossia gli accordi sulle esplorazioni dei giacimenti, o la ripresa di quelli bloccati.

 

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