“Cara Liviuccia, lettere alla moglie” (Solferino), è stato presentato a Roma il primo ottobre al Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro. Il libro, a cura di Stefano e Serena Andreotti raccoglie le lettere inviate dal padre, Giulio, alla madre, Livia. “Sono i ricordi di una famiglia”, spiega la co-curatrice in una conversazione con Formiche.net, “mamma che scalpitava perché babbo era lontano in una famiglia piena di nonni, altri parenti e amici. La nostra casa di vacanza era sempre piena di gente! Ma comunque con questa molto sentita presenza-assenza di mio padre. Nelle estati noi eravamo distanti e lui rimaneva a Roma per lavorare: quando veniva era una festa. Sia mia madre che mio padre ci hanno fatto vivere una infanzia veramente felice” (leggi l’intervista completa).
A presentare il libro Giuseppe De Rita, Gianni Letta e Barbara Palombelli. “Un libro che riporta alla Roma del dopoguerra, in cui la sera dopo cena si passeggiava e in cui la dimensione del mangiare era importantissima – ha spiegato De Rita, che ha firmato la prefazione del libro -. E infatti nel libro c’è un menù infinito, ‘oggi ho mangiato questo e quello’. Ma noi eravamo ex morti di fame, quella era una classe dirigente che si rifugiava dal suo mondo”.
“Andreotti aveva la passione delle persone. Oggi tutti si interrogano su come ritrovare il rapporto con le persone, la politica è diventata una vetrina”, ha detto Barbara Palombelli. “Ma la politica vera è quella della agenda Andreotti: quanti funerali sono raccontati nelle lettere! Conosceva tantissime persone e diceva, ricevo prima il sindaco di Fiuggi che l’ambasciatore americano. Giulio e Livia si erano conosciuti e amati in un momento di guerra, ragazzini coraggiosi erano stati parte di una comune resistenza molto romana”.
Andreotti era, per Gianni Letta, “un personaggio straordinario anche nella dimensione più semplice. Bollato come minimalismo andreottiano, il suo modo di essere era diventato un difetto. Questo libro fa giustizia di questo aspetto. Rivela un Andreotti inedito, intero e vero. La dimensione pubblica non era la sola che poteva spiegare un personaggio complesso come Andreotti. Quell’Andreotti non era vero. Nelle lettere c’è la dimensione pubblica e quella privata. Ecco chi era Andreotti. Non può essere Belzebù, non è Belzebù. Questo libro fa giustizia di schiere di giornali. Andreotti, nei pregi e nei difetti, è quello che traspare dalla interezza della sua personalità”.
(c) Umberto Pizzi – Riproduzione riservata