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Mentre nel Paese si combatte una guerra di frontiera, con blocchi su strade e autostrade, c‘è qualcuno che approfitta del caos sul made in Italy per “incassare” numeri significativo? La domanda trasuda da un paper diffuso da Nomisma secondo cui “si è messo in dubbio quel legame di filiera che, considerando tutti gli operatori coinvolti (agricoltura, industria alimentare e distribuzione), rappresenta un asset strategico del nostro paese (14% del PIL)”. Con la conseguenza di perdere di vista una della questioni strategiche per eccellenza: ovvero, se il “made in Italy” è così famoso e richiesto nel mondo, “come è possibile che il nostro export alimentare valga solo la metà di quello tedesco?”

IL TERZO GODE
Il ragionamento alla base dell’analisi di Nomisma è che ad oggi vincono già i competitor esteri dei nostri prodotti agroalimentari, ovvero i produttori, come nel caso dei tedeschi. Quelli stessi che non facendo leva su una distintività analoga a quella che contraddistingue il nostro “made in Italy” alimentare, “hanno più di noi puntato su efficienza e competitività di sistema. E i risultati raggiunti sembrano dar loro ragione”.

EXPORT TEDESCO
Spulciando i dati sulla propensione all’export dell’industria alimentare tedesca, ci si accorge che supera il 30%, contro il 20% dell’Italia. Ma è alla voce valori assoluti che il divario si fa incolmabile: ben 5 miliardi di euro contro 26. Anche la Francia fa meglio dell’Italia, con 42 miliardi di euro e la Spagna ci pareggia con 22 miliardi. Ma rispetto ai tedeschi l’Italia produce più valore aggiunto: 24 miliardi contro 11. Un dato che secondo Nomisma non andrebbe sottovalutato, in quanto proprio da quel valore aggiunto si ha il polso di quanto un settore sia rilevante per l’economia di un Paese. Quell’indice è dato proprio dalla somma delle remunerazioni che vanno ai lavoratori (salari e stipendi), agli imprenditori (utili), ai prestatori di capitale (interessi bancari e finanziari) nonché allo Stato (imposte dirette).

RISCONTRI
Secondo Nomisma quindi se il valore aggiunto prodotto dall’industria alimentare italiana è maggiore di quello tedesco – pur a fronte di un fatturato che invece ne rappresenta i ¾ – “è anche grazie ad un più alto posizionamento di prezzo dei nostri prodotti, segnale evidente di un apprezzamento che i consumatori di tutto il mondo esprimono verso le nostre produzioni alimentari”. Ecco che un raffronto secco tra Italia-Germania chiarisce i termini della questione. Le esportazioni di formaggi italiane nel 2012, sono state pari a poco meno di 2 miliardi di euro, quelle tedesche hanno superato i 3,5 miliardi. Ma il nostro prezzo medio all’export è risultato doppio (6,6 €/kg contro 3,1 €/kg). Altro esempio proposto da Nomisma la cioccolata: 1,3 miliardi di export di prodotto italiano contro i 3,6 miliardi di quello tedesco, ma con un prezzo medio di 5 €/kg contro 3,8 €/kg. Unica voce felix il vino.

ISOLA FELICE
Da dove derivano i numeri tedeschi? Dal fatto che la Germania esporta di più perché è più competitiva e non soffre di gap strutturali che invece limitano la propensione all’export delle nostre imprese. Le criticità italiane secondo Nomisma sono la dimensione media delle aziende, per cui il 70% del valore dell’export alimentare italiano è fatto dalle imprese con più di 50 addetti che nel nostro paese sono meno di 900 (pari ad appena l’1,5% del totale). In Germania la stessa tipologia conta quasi 2.900 imprese, pari al 9% del totale.

NON PIU’ PICCOLO E BELLO
Secondo Denis Pantini, direttore Area Agricoltura e Industria Alimentare di Nomisma, “un tempo si diceva piccolo è bello, ma questo paradigma sembra oggi scricchiolare di fronte a due fattori travolgenti: da un lato, la crisi dei consumi interni che obbliga le nostre imprese a guardare a mercati sempre più distanti geograficamente; dall’altro, un sistema Paese che anziché supportare le nostre imprese in questa ricerca di competitività rischia di affossarle definitivamente, colpendo in primis quelle più piccole”. E offre due istantanee per definire i contorni di questa analisi: “Siamo tutti contrari ai rigassificatori, ma intanto il costo medio industriale dell’energia elettrica in Italia è superiore del 70% a quello medio europeo; il costo del trasporto su gomma (sul quale viaggia il 90% delle nostre merci alimentari) è superiore del 30% a quello spagnolo e non è solo una questione legata al prezzo dei carburanti ma anche di deficit infrastrutturale che ci vede penalizzati rispetto agli altri competitor europei”.

I NODI VERI
Ecco che secondo Pantini questi sono “i veri nodi sui quali gli agricoltori, le imprese alimentari e le istituzioni italiane dovrebbero concentrare i loro sforzi, nella consapevolezza che la filiera del made in Italy alimentare non solo è un valore per il Paese ma senza di essa non potrebbe sopravvivere nessuna delle componenti che ne fanno parte. Perché senza gli allevatori italiani del suino pesante non potrebbero esistere i prosciutti Dop, ma senza l’industria pastaria non avrebbe senso coltivare grano duro in Italia”.

Chi guadagna dalla crisi del made in Italy?

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