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Inizia oggi quella che potremo forse chiamare la ‘nuova ondata italiana delle privatizzazioni”. Lasciamo ad altri di commentare gli aspetti specifici delle misure immediate relative a Poste Italiane e Enav per dare un’occhiata a ritroso sul processo di privatizzazioni in Italia, utilizzando, in gran misura, i rapporti annuali che da quasi tre lustri produce l’Associazione Società Libera. Non sono certo mancate altre analisi, italiane e straniere; ad esempio, la Fondazione Eni Enrico Mattei ha condotto periodicamente studi di qualità in materia e, prima delle elezioni del 2008, l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un Manuale delle Riforme per la XVI Legislatura (che faceva perno su privatizzazioni e liberalizzazioni. I rapporti di Società Libera hanno il grande vantaggio della continuità e della omogeneità di approccio.

LE DUE FASI DEGLI ANNI NOVANTA

Ci sono state due fasi che hanno marcato il processo di privatizzazioni negli Anni Novanta: quella dal 1992 al 1995 di approntamento degli strumenti e quella dal 1996 al 2001 di realizzazione della riduzione del peso delle imprese a controllo e partecipazione statale nell’economia. All’inizio di questo secolo, ossia nel 2000, che a dieci anni circa dall’avvio del programma molto restava ancora da cedere, in termini sia di partecipazioni di controllo, sia di quote minoritarie. Lo Stato – stimava Società Libera – “potrebbe ottenere circa 108.000 miliardi dalla vendita delle quote ancora detenute in società solo in parte cedute, ed un ricavo nettamente più elevato dalla cessione delle partecipazioni di maggioranza in altre aziende, quali le imprese operanti nei settori della cantieristica navale, navigazione e difesa, le Ferrovie, le Poste, e la Rai”.

IL CEDIMENTO DEI MERCATI AZIONARI

Naturalmente, queste stime presupponevano che si fosse superata la fase di cedimento dei mercati azionari  su scala mondiale, allora in corso a ragione dell’implosione della bolla della “net economy”.
Nell’ipotesi in cui fosse stata portata a compimento la cessione delle attività produttive commerciabili, lo Stato avrebbe potuto chiudere l’era delle partecipazioni statali con un guadagno molto consistente, anche se calcolato al netto dell’indebitamento dalle stesse indotto. Inoltre, avrebbe potuto disporre di mezzi per abbassare il debito pubblico in essere per un importo stimabile attorno al 10%, senza contare i proventi di un’eventuale vendita delle aziende per i servizi pubblici locali. Ma perché ciò si realizzi – si sottolineava – sarebbe stata  necessaria, a parte un miglioramento delle condizioni di mercato, una forte determinazione a dismettere la proprietà e a reinterpretare il ruolo dello Stato nell’economia. Per riprendere un verso cruciale tra i 12.000 di cui si compone il Faust di Wolfgang Goethe Es irtt der Mensch/solang’ er strebt – l’uomo può sbagliare nell’”impegno totale”, ma per raggiungere obiettivi concreti è essenziale tale impegno-. Utile sottolineare che streben è un verbo per cui non esiste un equivalente italiano: vuole dire darsi da fare con una tenacia che rasenta la cocciutaggine.

I PROGRAMMI DEL GOVERNO

Allora il Governo in carica sembrava intenzionato ad andare avanti in queste direzioni: il Dpef  2001-2003 prevedeva, infatti, di realizzare introiti nel corso del quinquennio che stava per iniziare, un programma graduale giustificato alla luce degli obiettivi che si è posto di “rafforzare gli assetti produttivi nazionali” e di realizzare guadagni di efficienza nelle società da porre in vendita. “Un programma di gradualità nelle vendite va, pertanto, bilanciato – avvertiva Società Libera – con un maggiore impegno nel superare le manchevolezze del contesto economico ed istituzionale emerse nel processo di privatizzazione”. Prima fra esse era la sperequazione esistente in termini di assetto concorrenziale nei settori in cui le imprese pubbliche continuavano a godere di un rilevante potere di mercato. Maggiori benefici per l’economia sarebbero potuti derivare da una politica attiva volta a favorire l’ingresso di nuovi concorrenti sul mercato e a livellare le posizioni concorrenziali.

Altre carenze andavano sanate su tre fronti: contendibilità della proprietà delle società, trasparenza dell’informazione disponibile per i mercati e protezione degli azionisti di minoranza. Una revisione dei vincoli all’OPA e dei limiti di possesso azionario, un’integrazione delle regole di controllo societario al fine di ottenere completezza, tempestività e trasparenza nell’informazione diretta ai mercati, e un potenziamento dei poteri d’intervento della Consob, inclusi alcuni poteri di sanzione, apparivano passi necessari per elevare l’efficienza allocativa dei mercati. In questa azione sarebbe auspicabile che si perseguisse l’allineamento delle regole interne alle best practices in vigore tra i paesi dell’euro; ancor più desiderabile sarebbe un approccio diretto a stabilire a livello di area dell’euro un unico modello generale dicorporate governance per le società. Verso le imprese ancora da privatizzare si richiedeva, invece, un’azione più intensa volta a responsabilizzare il management nel perseguimento dell’efficienza, benché sia difficile attendersi salti di produttività, data la debolezza dei meccanismi di responsabilizzazione del management, quando sono in mano politica. Nel settore bancario, il problema di una maggiore efficienza nell’allocazione delle risorse si intrecciava tra l’altro con il nodo del ruolo ancora preponderante delle fondazioni.

Allora non si avvertivano quelle barriere ideologiche, sociali e strutturali che negli anni Novanta hanno reso arduo e a tratti impervio il cammino verso le privatizzazioni. Ma stava anche  venendo meno la forte spinta esterna ad andare avanti. Rimaneva una pressione indiretta, meno evidente, che derivava dall’inarrestabile processo di apertura dei nostri mercati, e che non necessariamente nel breve periodo spingeva a ricercare maggiore efficienza e competitività a livello sia di impresa sia di sistema.

LE DUE FASI DELLE PRIVATIZZAZIONI

I tredici anni appena conclusi possono essere divisi in due fasi. Nella prima, il Governo ed il resto società hanno cercato di intraprendere l’erta via delle privatizzazioni. Si è portata a conclusione la liquidazione dell’IRI, si è definito il nuovo regolamento delle fondazioni bancarie e soprattutto si è fatto ricorso a tecniche innovative per predisporre la cessione a privati, anche in campi come la vendita di immobili di proprietà pubblica ed ad utilizzare lo strumento dei fondi pensione (allora in via di costituzione e regolamentazione) pure al fine di favorire le denazionalizzazioni. La strada sembrava, ed era, tutta in salita ma era promettente anche in quanto il Dpef 2003-2006 indicava quattro precise direzioni di marcia: a) vendita entro 18 mesi dell’insieme delle partecipazioni ritenute non strategiche; b) cessione di una quota delle partecipazioni più importanti che non intacchi il controllo sulle imprese; c) ristrutturazione delle aziende ancora in mano pubblica per prepararle alla vendita nel medio periodo; d) interventi per promuovere e tutelare la concorrenza, specialmente nel settore dei servizi di pubblica utilità. Ci sarebbe  voluta tenacia e coraggio ( e cocciutaggine nei confronti di interessi particolaristici costituiti) per portare avanti un programma di tale sorta. Ma, come si è detto, il verbo streben non ha equivalenti in italiano.

Già analizzando le privatizzazioni nella XIV Legislatura, si sottolineava come gli obiettivi dichiarati fossero tutt’altri che chiari, come anche al solo scopo di “fare cassa” per ridurre il fardello del debito pubblico si sarebbero potute utilizzare tecniche più efficienti e più efficaci, come poco si fosse fatto in materia di liberalizzazioni, specialmente dei servizi pubblici locali e come metodo, procedure e tecniche per la privatizzazione dell’Alitalia (allora in fase preliminare) sollevassero numerose perplessità.

Il 2007 sarebbe dovuto essere l’anno (ove non del completamento) quanto meno di un considerevole progresso nel processo di privatizzazione iniziato negli Anni Novanta. E’ stato, invece l’anno delle privatizzazioni mancate a ragione della crisi economica internazionale che, cominciata negli Stati Uniti, ha comportato un ritorno alla grande dell’intervento pubblico, in una prima fase, nel settore bancario e, successivamente, nel resto dell’economia. Non sono mancati spiragli ed opportunità nelle strategie di uscita dalla crisi economica , nonché suggerimenti e proposte su come tornare a privatizzare.

UNA TENDENZA DECRESCENTE

Tuttavia, le Relazioni annuali sulle privatizzazioni al Parlamento del Ministero dell’Economia e delle Finanze, MEF; mostrano una tendenza marcatamente decrescente: la più recente, purtroppo, copre il periodo  2007-2010 riguarda principalmente vendite di diritti di opzione nell’ambito di operazioni di aumento di capitale (Finmeccanica, Enel, Seat), scambi di azioni tra Ministero e Cassa Depositi e Prestiti, e cessioni da parte del Gruppo Fintecna per un totale di poco meno di un miliardo di euro nei quattro anni presi in considerazione – appena 12 milioni circa nel 2010 (senza contare la cessione del 30% di Enel Green Power non trattata nella Relazione in quanto non riguarda una privatizzazione in senso stretto).

Nel 2011, nel nostro Paese le privatizzazioni sono state insignificanti: non si sono trovati acquirenti per la Tirrenia e l’apertura al mercato del settore dei servizi pubblici locali è stata bloccato da un referendum che ha lasciato il comparto in un guazzabuglio normativo. Nel 2012 è stata tentata, ma non realizzata, la privatizzazione dell’Ente Ufficiali in Congedo. Nel 2013 non ci sono stati neppure tentativi.

LA NUOVA ONDATA

E’ un fenomeno che corrisponde al tassello italiano di una tendenza mondiale? E’ in corso, secondo il “Privatization Barometer Report ”, una nuova grande ondata di privatizzazioni. Dopo salvataggi nel settore finanziario (e non solo), gli Stati ricominciano a fare marcia indietro, timorosi, a ragione, che la loro estensione tentacolare freni lo sviluppo ed aumenti le diseguaglianze invece di diminuirle. Nel corso del 2010, a livello globale i governi hanno incassato circa 160 miliardi di euro. Si tratta di uno dei valori più alti mai registrati nella storia, secondi solo ai 184 miliardi di euro incassati nel 2009, un valore allora comunque drogato dal riacquisto delle azioni da parte delle banche americane che da solo valeva 118 miliardi di euro. Nel mondo intero, il 2010 è comunque l’anno che sembrava  di record: la cessione del 15% di Petrobras, che ha fruttato al governo brasiliano 52,4 miliardi di euro, è la più grande offerta pubblica di tutti i tempi, così come l’offerta pubblica iniziale di Agricultural Bank of China per 16,5 miliardi di euro. Il collocamento da 15 miliardi di euro di General Motors, che ritorna sul mercato dopo la nazionalizzazione del 2008, è la più grande IPO mai realizzata sulle borse americane.

LA CLASSIFICA MONDIALE DELLE PRIVATIZZAZIONI

Se guardiamo gli aggregati, in vetta alla classifica ci sono gli Stati Uniti, con quasi 36 miliardi di privatizzazioni, ma davanti a tutti ci sono i BRICs (Brasile, Russia, India, Cina), con 80 miliardi, la metà del totale . I paesi dell’UE hanno realizzato operazioni per 33,1 miliardi di euro, pari al 20,6% del totale. La Francia dei “campioni nazionali” è il paese europeo che ha privatizzato di più; nel corso del 2010, con circa 10,5 miliardi di euro di cessioni, seguita dalla Polonia e dal Regno Unito.

L’unica operazione significativa su cui può contare l’Italia è la citata cessione del 30% di Enel Green Power che con un controvalore di 2,6 miliardi di euro . Nel 2012, mentre in Italia il Governo Monti le provava tutte per privatizzare l’Ente Ufficiali in congedo. nel resto del mondo sono state realizzate denazionalizzazioni per circa 250 miliardi; oltre dieci volte, in termini nominali, di quanto realizzato nel 1998, considerato nei testi universitari “l’anno d’oro” della prima ondata.

IL RITORNO DELLE PRIVATIZZAZIONI E LE ECONOMIE EMERGENTI

E’ utile mettere in relazione il ritorno delle privatizzazioni nel mondo con le tendenze profonde delle economie emergenti. I governi dei Paesi emergenti approfittano delle buone condizioni di mercato e della forte crescita delle loro economie per valorizzare attraverso le privatizzazioni le loro imprese pubbliche, aprendole ulteriormente al capitale privato nazionale e internazionale, rendendole più solide finanziariamente e quindi più competitive. Le privatizzazioni dei paesi avanzati sono invece legate alla debolezza della congiuntura e alle conseguenti condizioni critiche della finanza pubblica. A fronte del rischio di insolvenza degli stati sovrani, i governi occidentali rilanciano quindi le privatizzazioni, unica politica che consente di realizzare il necessario deleveraging (riduzione dell’indebitamento) senza incidere sulla spesa pubblica e sul welfare, fondamentale per la tenuta sociale in tempi di crisi.

“Un programma coerente di privatizzazioni – scrive Privatization Barometer Report  – riduce progressivamente l’ambito di discrezionalità della politica sulle imprese, aumenta la credibilità della politica economica e quindi da ultimo migliora il rating di mercato dello Stato ,con ricadute positive sugli spreads.” Non a caso, l’UE ha preteso dal Governo greco un ambizioso piano di privatizzazioni per dare via libera alla nuova tranche di aiuti.

E L’ITALIA…

Come spesso accade, l’Italia è un caso a sé stante. L’esito del cosiddetto referendum sulla privatizzazione dell’acqua, nonostante gli ottimi risultati di gestione delle acque da parte di imprese private nella vicina Francia, ha reso più difficile la riapertura del dossier paradossalmente proprio nel momento, in cui un piano aggressivo di privatizzazioni dovrebbe essere in cima alla lista per risolvere , o almeno alleviare, il nodo dello stock di debito pubblico e rimettere in moto l’economia italiana. Se  non ci muoviamo presto e bene , arriveremo tardi, quanto meno sotto il profilo finanziario. Non si può pensare che l’attuale situazione mondiale di liquidità resti a lungo – ci sono già cenni di aumento dei tassi d’interesse.

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