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Le relazioni diplomatiche di Renzi e quelle di Letta procedono seguendo percorsi paralleli e divergenti. Entrambe sono finalizzate a valorizzare esclusivamente la ditta, cioè il Pd, da una parte, il governo dall’altra. Poiché il Pd è il partito-pilastro di un esecutivo essenzialmente di sinistra, benché con appendici non troppo significanti (quantitativamente) di centro, è inevitabile che la pressione del partito si cominciasse ad avvertire nel governo come qualcosa di minaccioso piuttosto che di rassicurante.

Questa è la conseguenza di un sistema bipolare radicale che, enfatizzando le estreme, ha finito per dare vita ad una diarchia di potere – il governo e il partito – e a produrre al suo interno persino una condizione di incomunicabilità. Avvertibile non soltanto nelle dimissioni di Fassina quanto nella confusione fiscale sull’edilizia e sulle retribuzioni degli insegnanti, sulla legge elettorale come sui provvedimenti necessari per avviare un minimo di decrescita della disoccupazione e dare al paese qualche serio segnale di ripresa economica dopo gli irresponsabili annunci promettenti (ma non mantenuti) che si vanno distribuendo provocando nuove tensioni sociali e ulteriori disistime politiche ed elettorali.

Se questa è la realtà e la politica non riesce ad avere il coraggio di rialzarsi (come sollecitato da Napolitano nell’appello di Capodanno), non è combattendo ognuno per sé che si potranno creare le condizioni per una inversione di tendenza. Al contrario, chi si assegna, come Renzi, il compito di “cambiare il verso all’Italia” rischia di recare un forte contributo ad una generale regressione, implicando nel fallimento anche la leva giovanilistica dei quarantenni. Il capo dello Stato ha già comunicato ai cittadini che non è disposto a dare ulteriore credito alla politica politicante e, conseguentemente, avverte d’essere pronto ad abbandonare la fatica di governare l’ingovernabile. Stupefacente la reazione dei media e di chi li fomenta: si sconta l’abbandono di Napolitano e si calcola cosa di diverso potrà accadere se le dimissioni verranno date in coincidenza con lo scioglimento anticipato delle camere oppure immediatamente dopo l’inaugurazione della XVIII legislatura.

Ancora più surreale la condotta delle medio-piccole formazioni, a cominciare da quelle di centro che, benché di recentissimo conio, manifestano straordinarie ambizioni di rimonta: se Renzi offre colloqui sulla legge elettorale, gli alleati ministeriali vanno a protestare da Letta perché sarebbe indispensabile una prioritaria concordanza fra colleghi di governo e così spostare ulteriormente in avanti la conclusione delle trattative, in modo da potersi nel frattempo meglio preparare alla ormai quasi inevitabile tenzone elettorale. Manca insomma pressoché totalmente, sia al Pd che al governo che agli alleati della piccola coalizione (ridottasi ad aver bisogno delle trasfusioni dei senatori a vita), la percezione del malessere nazionale anche dinanzi all’assenza di visione politica da parte di numerosi ministri, siano tecnici o provenienti da esperienze politiche.

Se ancora i partiti di centro hanno una dignità e un minimo di capacità di analisi politica, anziché contendere al diretto avversario il medesimo collegio elettorale, provvedano, subito, ad esprimere vie d’uscita dalla crisi. Se non sono in grado di farlo (e le presentazioni dei libri, benché opportune, non costituiscono una proposta politica convincente), diano almeno al paese la sensazione di avere l’orgoglio della loro permanenza nella geografia parlamentare di domani e lascino stare le tattiche dilatorie.

 

I quarantenni di Renzi a rischio fallimento

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