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Dal giorno in cui Papa Francesco ha promulgato l’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, siti e blog liberali-libertari si interrogano sul significato delle parole del Pontefice in materia economica. In particolare, registriamo sul fronte cattolico-libertario una certa preoccupazione per i giudizi del Papa nei confronti del mercato, come se egli avesse scritto un trattato di economia e non un documento pastorale sul tema dell’evangelizzazione. In effetti, le parti nelle quali Papa Francesco affronta le problematiche legate al mercato sono circoscritte e non trattano dei processi di mercato, della loro liceità e opportunità, quanto della cultura che anima gli operatori di mercato e delle conseguenze esistenziali dei processi innescati da operatori che, ad ogni costo e a qualsiasi prezzo, fanno del proprio interesse l’unico e decisivo parametro, in forza del quale conformare le proprie aspettative e porre in essere le strategie conseguenti.

Non mi dilungo su questo aspetto, dal momento che ad esso ho dedicato già numerosi articoli. Pensavo invece di offrire qualche modesta riflessione su un punto che sembra aver destato un’incomprensibile disputa nei suddetti ambienti liberal-libertari di impostazione cattolica. La frase incriminata è la seguente ed è tratta dal paragrafo 54 del secondo capitolo, nell’ambito delle sfide del mondo attuale e, in particolare, tratta del rifiuto di un’economia dell’esclusione. All’inizio del paragrafo, Papa Francesco afferma: “In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della ‘ricaduta favorevole’, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo”. Con l’espressione “ricaduta favorevole”, Papa Francesco intende quel complesso di teorie che vanno sotto il nome di trickle-down teories; almeno questo si evince, assumendo la traduzione inglese e spagnola del documento. Per trickle-down si intende la “ricaduta favorevole”, in termini economici, nei confronti dei percettori di redditi bassi, dei vantaggi fiscali accordati dallo Stato ai percettori di redditi alti. Più banalmente, si identifica con la fiducia che un mercato dinamico e flessibile sia in grado di produrre effetti positivi per tutti, anche per coloro che non operano immediatamente sul mercato, ma che, grazie alla dinamicità di quest’ultimo, potranno essere inclusi e partecipare a loro volta al suo dinamismo: una sorta di effetto traino dovuto ad un mercato dinamico.

Dunque, si tratta di un sistema teorico e, come tutti i sistemi teorici, può essere più o meno apprezzato e più o meno condiviso, sempre criticato e in perenne assedio sotto il fuoco dei tentativi di falsificazione. Un sistema teorico, per definizione, ha un profilo descrittivo, ci offre una grammatica e una sintassi per rispondere alla domanda circa il come e il perché del darsi di un fenomeno, non ha, ovvero non dovrebbe avanzare, alcuna pretesa normativa. In breve, dovrebbe aiutarci a descrivere e a spiegare la realtà, evidenziandone lo scarto rispetto al modello, e non a prescriverla, a plasmarla, come se fosse un modello ideale verso cui tendere e non uno strumento che la misura.

A questo punto, che cosa ci dice Papa Francesco in quella frase e nelle altre contenute nei paragrafi più immediatamente dedicati alle problematiche economiche? In primo luogo, non mi sembra che il Pontefice neghi o condanni il mercato, anzi riconosce che il mercato favorisce la crescita economica. Tuttavia, opportunamente e correttamente, il Papa ci dice una cosa molto semplice e di buon senso che solo chi legge il documento in modo ideologico sembrerebbe non cogliere: la crescita, trainata dal mercato, non è immediatamente sinonimo di sviluppo; e come negarlo? Il mercato, dinamico e aperto, è lo strumento migliore per incrementare la crescita, ma tale crescita (elemento quantitativo) non si traduce necessariamente in sviluppo umano integrale (elemento qualitativo), che poi è ciò che interessa alla Dottrina sociale della Chiesa e che dovrebbe interessare ciascun cristiano.

In secondo luogo, leggendo e rileggendo i paragrafi dedicati alla questione economica, non mi risulta che il Papa affermi che tale impossibilità di ridurre in modo meccanico lo sviluppo alla crescita economica sia imputabile al mercato in quanto tale. Il mercato è un meccanismo-processo per la raccolta e la trasmissione di informazioni, coordinato dal sistema dei prezzi assunto come parametro, peraltro sempre cangiante. In pratica, il mercato è lo strumento di cui si servono gli operatori economici e fa il suo mestiere nella misura in cui ottimizza il processo di raccolta e trasmissione delle informazione in ordine alla domanda di beni e servizi. Non possiamo chiedergli di dire e di fare ciò che non sa dire e che non può fare. Lo sviluppo integrale non è riducibile alla mera crescita economica perche necessita della dimensione educativa, culturale, valoriale che il mercato non produce da sé, se non mediante le persone che in esso vi operano. Come ci hanno insegnato i padri dell’economia sociale di mercato, a partire da Wilhelm Röpke, ripreso peraltro da Papa Benedetto XVI nella Caritas in veritate, ma come del resto ci ha insegnato anche Adamo Smith, il mercato nudo e crudo semplicemente non esiste. Esistono i valori, le culture, le fedi, le tradizioni che conformano le istituzioni che, loro volta, erigono i mercati e qualificano i processi di mercato. In breve, sono le scelte e le azioni degli operatori che offrono la cifra umana di un mercato, il suo volto, la sua storia.

A questo punto, Papa Francesco è chiarissimo e credo intenda provocare le nostre coscienze. Ci dice le cose come stanno nella realtà: si pensi alle bambine che si prostituiscono e ai genitori comnpiacenti, e sposta l’attenzione dalla dimensione teorica a quella esistenziale; esattamente ciò che dovrebbe fare un Papa; in fondo, alla teoria devono pensarci i teorici, noni i pastori.

Parlare dei poveri, appellandosi ai ricchi, come d’altronde fece anche Luigi Sturzo nel suo “Appello agli uomini liberi e forti”, e dire che è in atto una “cultura dello scarto”, non significa negare il mercato. Piuttosto significa pungolare coloro che hanno responsabilità decisionali a vari livelli e in vari ambiti (economici, politici e culturali), affinché facciano la loro parte nell’incessante opera d’implementazione istituzionale dei processi di mercato, affinché siano autenticamente e sempre più dinamici e aperti e non il regno chiuso occupato dai detentori delle rendite.

Affermare che lo sviluppo è irriducibile alla mera crescita economica, allora, significa riconoscere il primato della cultura, la centralità della persona e un’idea di istituzioni politiche, economiche e culturali, tra le quali il mercato, la cui cifra morale è data dalla prospettiva antropologica espressa da coloro che in esse operano. In pratica, significa ammettere che si possa dare una crescita senza lo sviluppo, perché esiste un profitto di monopolio, un profitto di guerra; perché esiste il profitto di chi pretende di raccogliere senza aver prima seminato, di chi si approfitta delle strette relazioni con il potere, di chi devasta la terra, di chi traffica in droga e in armi; perché esiste un profitto di chi consuma in modo dissennato le ricchezze che le generazioni precedenti hanno saputo produrre e di chi scarica i costi del presente sulle generazioni future.

Si tratta solo di buon senso e, di questi tempi, non è poco.

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