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In nessun paese democratico del mondo si potrebbe avviare un progetto riformatore – elettorale, istituzionale, costituzionale, partitico, economico – con i principali leader politici fuori del parlamento. Accade, invece, che in Italia, nell’anno di grazia 2014 appena iniziato e già denso di polemiche e di dimissioni dal governo, e dunque ancor più scombinata di com’era, non si sia in condizione di rialzare la cresta; e men che mai di prevedere un futuro, anche prossimo, davvero stabile, sicuro, operoso, accolto dagli applausi di una maggioranza reale e vasta del paese.

Sono fuori dal parlamento – per motivi diversi – non re travicelli o personaggi d’ultima fila, ma i rappresentanti dell’80 per cento dei votanti. Addirittura surreale, per una democrazia parlamentare, il caso del raggiante capo del partito di maggioranza relativa uscito vincitore nella sua battaglia di cambiare il verso al mondo intero. Da modello per un regime sudamericano aduso al golpismo la posizione del capo carismatico della principale opposizione parlamentare, estromesso per via giustizialista da Palazzo Madama nell’illusione degli avversari di esserselo tolto finalmente di torno e, invece, riguardato ora dagli stessi strateghi come il mazziere delle carte in gioco e, dunque, privilegiato nelle tattiche a breve e a medio termine.

Senza confronti possibili il capo del ribellismo antipartitico che ha raccolto il maggior numero di voti a febbraio, anche se è penalizzato per effetto del premio di maggioranza che il Pd si tiene stretto perché, senza, rischia grosso anche se ora confida nell’arruffone Renzi per recuperare milioni di voti andati persi non per distrazione ma per crisi di decrescita progressiva. Tipico di un federalismo balcanico il neosegretario della Lega Nord, un po’ giamburrasca (come Renzi), un po’ parasecessionista, un po’ brusco e ciarliero come fosse davvero in grado di riportare il leghismo ai fasti del 1992-’94.

Francamente, nessuna buona intenzione può colmare il vuoto della politica che s’è venuto ad aggiungere ai guai economici pro-vocati, da diversi anni, tanto dalla speculazione finanziaria internazionale, quanto dalla presunzione dei tecnici (portati avanti dai grandi media) di rimediare laddove avevano fallito politici navigati. Agli errori a catena del governo Monti si sono aggiunti quelli del suo ambizioso partito che, cadute le velleità elettorali, s’è andato a frantumare in più tronconi, tutti mancanti di un quid propositivo che possa legittimare una loro pretesa di condizionamento del futuro italiano. Simpatie umane a parte, e fatto salvo il rispetto per le persone e i loro disegni avveniristici ma poco comprensibili, non è da codeste contrade che possa provenire qualche raggio di luce nel tunnel della politica italiana. Come è vero che è tempo di passare dalle grandi illusioni ai primi fatti concreti: che, in democrazia, finiscono sempre col riguardare il vaglio del popolo elettore, con tutte le sue sfumature, talvolta anche bizzarre, in esso presenti, non rimuovibili con trucchi tecnicistici.

Le cronache narrano di diplomazie al lavoro per ricucire strappi laceranti ma improduttivi sul centrodestra. Il sinistra-centro, pur scombussolato, ha chiuso ogni spazio di manovra sulla propria sinistra, inglobando, almeno attorno a Renzi, postbolscevichi e integralisti di sinistra che non vogliono ancora accettare la realtà, cioè che il comunismo è morto ormai da venticinque anni. Manca nel confronto fra i partiti un capo convincente. Cioè un vero leader politico che sappia delineare una prospettiva al massimo unitaria, lasciando che, dopo un voto più chiaro perché ottenuto con un nuovo strumento elettorale (da inventare in meno di due settimane), il nuovo parlamento abbia maggiore autorità e peso per dedicarsi a riforme strutturali attese da decenni. Occorrerebbe un generale scatto d’orgoglio. Ma il tutti contro tutti non è un buon viatico da coltivare e assecondare.

 

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