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La Bindi evoca l’Alfetta e io, però, penso all’Arna. La Bindi in una delle sue recenti dichiarazioni sostiene di non vedere all’orizzonte nessuna Alfetta, alludendo alla sinergia governativa tra Letta e Alfano. La stagione delle larghe intese, che nella fusione dei cognomi dei due leader evoca uno dei più bei modelli dell’Alfa Romeo, rimanda alla stagione, quella degli anni 70 e 80, in cui il consociativismo tra la DC e il PCI si era diffuso dalle istituzioni a tutti i livelli del funzionariato pubblico e, con la nazionalizzazione delle più importanti imprese della grande industria a opera dell’IRI all’indomani della crisi petrolifera, a gran parte del comparto produttivo del paese. Con buona pace dei liberali, chissà dov’erano. E con buona pace del libero mercato.

La Bindi evoca l’Alfetta e io penso all’Arna. Dopo l’esperienza dell’Alfa Sud che non si ricorda certamente come un successo industriale e di mercato, l’Alfa Romeo, sempre più indebitata e da tempo in mano pubblica, viene affidata al nuovo Presidente: Ettore Massacesi. Un ex-giornalista del Giornale Radio che si era occupato dei temi del lavoro e che aveva in tasca la tessera della DC. L’Amministratore Delegato è Corrado Innocenti, un manager dal trascorso in diverse imprese pubbliche e il cui motto era: “Vendere automobili o cioccolatini è la stessa cosa”. Ecco.
Accanto ai numeri, uno e due dell’azienda, seguì un puntellamento dell’organizzazione, di tacco e di punta, mettendo uno del PCI qui e uno della DC là. Innocenti, nel predisporre il piano industriale, si circondò di consulenti. Un esercito. E, ovviamente, non poteva mancare il plotone della McKinsey. Figuriamoci. Si narra che all’uscita da una delle tante riunioni, in cui il tempo lautamente pagato dei consulenti si consumava come burro, Massacesi rimase sconvolto dall’astrattezza e dalla vacuità delle slides che mostravano un break even dopo 10 anni. Sic!
Massacesi fu sconcertato dalla troppa accademia dell’approccio consulenziale, dalla lontananza dal prodotto, dal prodotto Alfa.
In questo clima nacque il progetto “Arna”. Ci vorrebbe un trattato per approfondire quello che era il cuore dei valori su cui era stato costruito nel tempo il marchio Alfa Romeo; e ci vorrebbe una dozzina di cartelle per spiegare, con tanto di numeri e cifre, l’attaccamento degli “alfisti” al biscione (Berlusconi non c’entra). Automobilisti di tutto il mondo per quali l’Alfa Romeo rappresentava classe, stile e grinta più e meglio delle BMW al punto che l’Alfa Romeo superava la casa tedesca in quote di mercato. E L’Alfa Romeo “privata”, con la Duetto che finiva nel film “Il laureato”, diventava e si confondeva nell’Italia, era simbolo del made in Italy.
Costretti nella sintesi, volendo contribuire all’oggi sulla scorta della lezione del passato, quello che vale la pena ricordare è come l’ingerenza della politica, di una politica consociativista, negli affari d’impresa che obbliga a mettere nel balance scorecard obiettivi che sono pubblici e non privati, finisce per indebolire l’azione privata pregiudicando, al tempo stesso, il raggiungimento degli obiettivi privati e pubblici.

La Bindi evoca l’Alfetta e io penso al progetto Arna. La joint venture tra l’Alfa Romeo e la Nissan, doveva servire per saturare la capacità produttiva dello stabilimento di Grotta Minarda vicino ad Avellino – la produzione era stata attivata a Grotta Minarda per fare un favore a Ciriaco De Mita – che produceva, poco, le Alfa Sud. L’Arna doveva occupare il segmento delle vetture medio piccole, idea che non aveva nulla a che fare con i valori del marchio Alfa Romeo, al fine di aumentare la gamma dei modelli e incontrare un pubblico più vasto e, al contempo, evitare l’ingresso in Italia di competitor giapponesi nel segmento delle utilitarie – patto non scritto tra lo Stato e la Fiat per tutelare la casa torinese – . Una strategia che suggerì a Indro Montanelli di scrivere sul Giornale: “I giapponesi non mangiano i bambini”.
Nel 1983 l’Arna esce dal grembo dello stabilimento di Pratola Serra ed è un cesso. Sì, un cesso. Tanto è vero che, non più di qualche anno fa, in un sondaggio del Sole 24 Ore si è collocata al primo posto delle auto più brutte superando, udite bene, la concorrenza della Duna per la quale non è necessario aggiungere altro.

La Bindi evoca l’Alfetta e io penso all’Arna. Perché quel claim che, da piccolo, sentivo alla TV: “Arna e sei subito Alfista” era accompagnato dalle risate crasse e da un susseguirsi di battute tra il salace e volgare degli adulti di casa che se la ridevano. Quegli adulti di allora che nel terziario improduttivo trovavano però la biada che gli permetteva di ridere di fronte al degenerare di una politica che, metastasi dopo metastasi, stava facendo dell’elettorato una rete infinita di clientele costruendo a colpi di indebitamento una società pigra e immeritatamente opulenta a scapito delle generazioni che gli si sarebbero succedute.

La Bindi evoca l’Alfetta e io penso all’Arna

La Bindi evoca l’Alfetta e io, però, penso all’Arna. La Bindi in una delle sue recenti dichiarazioni sostiene di non vedere all’orizzonte nessuna Alfetta, alludendo alla sinergia governativa tra Letta e Alfano. La stagione delle larghe intese, che nella fusione dei cognomi dei due leader evoca uno dei più bei modelli dell’Alfa Romeo, rimanda alla stagione, quella degli anni 70…

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