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Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali

Tra Riyadh e Washington è calato il grande freddo. Nelle ultime settimane, l’Arabia Saudita è stata spiazzata dal riavvicinamento – forse tattico – dell’Iran alla Casa Bianca e dall’accordo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla distruzione dell’arsenale chimico del regime siriano.

Se la prima fase delle rivolte arabe iniziate nel 2011 aveva sorriso alle ambizioni geopolitiche di Riyadh, i sauditi temono ora l’isolamento regionale. La paura è che la relazione speciale con gli statunitensi smetta di essere tale. La recente visita del segretario di stato John Kerry nella capitale saudita ha avuto quindi il compito di placare le angosce dell’alleato. Tuttavia, gli Al-Sa‘ud e l’amministrazione statunitense hanno ancora bisogno l’uno dell’altra.

Rabbia e rifiuto sauditi
In reazione ai recenti colpi di scena diplomatici, Riyadh ha voluto manifestare la propria rabbia attraverso due mosse politiche di sicuro effetto mediatico. Dapprima, il rappresentante dell’Arabia Saudita ha evitato di pronunciare il tradizionale discorso all’Assemblea generale dell’Onu. In seguito, i sauditi hanno rifiutato il seggio non permanente in Consiglio di sicurezza, per la cui elezione si erano attivamente spesi nei mesi scorsi.

Il ministro degli Affari esteri saudita, Saud Faysal bin Al-Sa‘ud, ha giustificato tale gesto accusando le Nazioni Unite di “inattività” di fronte alla guerra civile – e ormai regionale – che si combatte in Siria. Ancor prima dell’Onu, il vero bersaglio delle parole di Riyadh è parso la Casa Bianca, colpevole -agli occhi dei sauditi- di aver abbandonato l’ipotesi di un intervento militare contro il regime di Bashar Al-Assad.

Guerra indiretta in Siria
Damasco rappresenta il terreno di confronto indiretto fra le monarchie della penisola e l’Iran. In Siria, l’Arabia Saudita è inoltre impegnata – come in Egitto e in Yemen – in una competizione finanziaria e politica intra-sunnita con l’ambizioso Qatar.

All’interno della frammentata opposizione siriana e dei suoi mille rivoli militari, Doha sostiene infatti le componenti vicine alla Fratellanza Musulmana, mentre Riyadh ha deciso di appoggiare sia i gruppi più distanti dall’Islam politico (in chiave anti Fratellanza) che le brigate salafite, riunite nel recente cartello del Gaish al-Islam, l’esercito dell’Islam, che si propone l’ormai arduo obiettivo di contenere l’espansione del jihadismo qaedista di Jabhat al-Nusra.

Perciò, i sauditi auspicavano l’intervento militare statunitense contro il potere damasceno, nell’intento di sbloccare un fondamentale teatro di guerra indiretta che li sta logorando. E provare a scongiurare l’esito politico che sarebbe per loro peggiore: un regime alawita ancora militarmente forte, insieme a un nugolo di milizie jihadiste – in alcuni casi legate ad Al-Qaeda – attive lungo quel vasto territorio tribale che dalla Siria orientale si espande fino alle regioni occidentali dell’Iraq (come Al-Anbar, Ninive, Salah al-Din), dove l’insorgenza sunnita contro il governo centrale è tornata forte e in parte violenta.

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Eleonora Ardemagni è analista in relazioni internazionali (Medio Oriente e Nord Africa), collaboratrice di Aspenia, ISPI, Limes.

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