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In Italia e non solo il tema delle pensioni è quello che causa maggiori fibrillazioni nell’opinione pubblica, nei governi e nei mercati. A Bruxelles, tornati alle loro scrivanie dopo il consueto letargo estivo, sono preoccupati non tanto perché l’operazione Imu-Iva non avrebbe tutte la coperture necessarie ma perché il Ministro del Lavoro ed uno dei vice ministri dell’Economia starebbero per porre sul piatto di governo, Parlamento ed opinione pubblica una nuova riforma delle pensioni. E’ noto che ciascun ministro del Lavoro vuole associare il proprio nome ad una riforma e non potendo mettere ordine nella normativa sul mercato del lavoro (metà della coalizione ‘di servizio’ insorgerebbe) pensa ad un riassetto globale della previdenza in nome dell’equità. Ha anche trovato Padri Nobili che di pensioni si intendono.

Sin da quando nel1995 è stata varata la “riforma Dini” si sapeva che il nuovo sistema “contributivo” di calcolo dei trattamenti sarebbe stato molto meno favorevole del sistema “retributivo”: il compianto Ornello Vitali, a lungo alla guida del Dipartimento Analisi Quantitative per le Scelte Pubbliche, ha pubblicato riguardo nel 1996, ne “La Rivista di Politica Economica”, calcoli accurati e mai smentiti  In Svezia, dove si varava una riforma analoga alla nostra, si prevedeva un periodo di transizione solo di tre anni proprio al fine di attutire le disparità. In Italia, Governo e parti sociali negoziarono una transizione di 18 anni proprio per garantire il ‘retributivo’ proprio a coloro che erano attorno al tavolo ed ai loro referenti.

Oggi, la “riforma Giovannini” se mai si farà (e se non causerà la fine del Governo prima dell’inizio dell’iter parlamentare, mira a un riequilibrio all’interno del sistema (già benedetto dal Presidente dell’INPS) a carico dei “pensionati d’oro”. In una nota , l’economista Stefano Micossi ricorda che “non c’è trippa per gatti”.

Secondo i dati Inps, i veri pensionati d’oro (quasi interamente a causa di una leggina speciale per i dipendenti del settore elettrico e telefonico, allora unitamente in monopolio) sono 540; pur applicando un taglio del 70% alle loro pensioni (ed ammettendo che i tribunali lo consentano) si otterrebbe ben poco anche perché – ma questo Micossi non lo sa o non dice) circa 300 dei 540 hanno superato i 75 anni. Pur ammesso che grasse pensioni allungano la vita, c’è pur sempre un limite.

Ci sono – è vero – i “pensionati d’argento” con un trattamento superiore ai 5000 euro al mese (tra i140.000 ed i 190.00 mila; dall’INPS sono uscite differenti cifre). Ammesso che non abbiano altri redditi, si tratterebbe di un netto mensile di 3000 euro; pur togliendo mille euro dal lordo, si otterrebbe quasi o nulla in termini di conti Inps e di giustizia sociale. Ammettendo che questa volta i tribunali, che hanno già bocciato tre “contributi di solidarietà”, questa volta cambino idea. Altra idea sarebbe quella di intervenire bloccando le indicizzazioni a chi pensioni superiori ai 5000 euro al mese; in 25 anni, coloro che non muoiono, perderebbe circa un terzo del potere d’acquisto. Non soltanto si tratterebbe di misura discriminatoria (e, quindi, di dubbia costituzionalità) ma si impoverirebbero gli ottantenni ed i novantenni quando hanno maggior bisogno di cure.

Ove ciò non bastasse, la misura avrebbe una parvenza di equità se le pensioni “di tutti” venisse ricalcolate secondo il nuovo metodo “contributivo” (come avvenuto in Svezia nel 1995-99), ma per i dipendenti pubblici non esistono dati prima del 1996 e per i dipendenti privati i dati sono carenti. Ad aggiungere complicazione, la legge del 1995 consentiva ai dipendenti pubblici di andare in pensione con il contributivo); molti lo hanno fatto perché più favorevole (conosco ad esempio il caso di una persona con 45 anni di anzianità, di cui 30 come dirigente di prima fascia, a cui il “contributivo” ha voluto dire un aumento del dieci per cento rispetto al trattamento che avrebbe avuto con il ‘retributivo’). Cosa fare in questi casi? Ricalcolare le pensioni di tutti e compensare (retroattivamente) coloro che , spesso perché non informati o poco avvezzi alla matematica attuariale) non hanno fatto la scelta a loro più conveniente.

Il “pasticciaccio brutto” è ancora maggiore perché pare diretto contro i manager aziendali e quei corpi dello Stato (alta burocrazia, Forze armate, magistrati, specialmente quelli amministrativi, della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato) che dovrebbe collaborare a definirla e attuarla. Al Consiglio di Stato, in barba al fatto che alcuni loro colleghi facciano parte del “Gabinetto Giovannini” si stanno già predisponendo bozze di ricorsi. Pare anche diretta contro tutti coloro che hanno ritardato il pensionamento, anche se su pressante invito dei Governi che da vent’anni si succedono. Quindi screditerebbe Governo e Parlamento.

Tutto ciò non vuol dire che il problema dell’equità previdenziale non c’è o che non debba essere affrontato. Nel 2001, una Guida alla riforma della previdenza predisposta da un gruppo di specialisti indicava un tracciato che in parte è stato seguito. Si può ancora operare su alcuni istituti della (complessa) normativa in vigore per porre rimedio al problema. In primo luogo, occorre abbassare il vesting, il numero di anni/mesi/settimane in cui si sono versati contributi per avere titolo a previdenza. Nel gennaio 1993 è stato alzato da 15 a 20 anni, suscitando critiche (ufficiose) dell’Organizzazione internazionale del lavoro, poiché in gran parte dei paesi membri si richiedevano tra 10 e 15 anni. Inps e Ragioneria Generale dello Stato dovrebbero effettuare simulazioni quantitative per individuare un numero di anni per un vesting compatibile con le ristrettezze di finanza pubblica. Oggi chi lavora 19 anni e 11 mesi paga contributi che sovvenzionano le pensioni altrui. Si tratta di milioni di uomini di uomini e soprattutto donne non di 540 o 140-190.000.

In secondo luogo, occorre operare sull’assegno di solidarietà per gli anziani incapienti (ossia privi di mezzi), re-introducendo qualcosa di analogo all’integrazione al minimo previdenziale. In terzo luogo, occorre lanciare un vasto programma di alfabetizzazione finanziaria-previdenziale. Un tempo, almeno per i funzionari pubblici, tali programmi venivano effettuati dalla Scuola nazionale di Pubblica amministrazione, ora sembrano spariti. In quarto luogo, occorre riformare, con incentivi e disincentivi, la previdenza complementare per ridurre il numero dei  fondi pensione dagli attuali circa 700, spesso lillipuziani (non in grado di attirare risparmi né piccoli, né grandi).

A Bruxelles, convinti che l’Esecutivo Letta non reggerebbe ad uno “scossone previdenziale”, ricordano che il tema non è né tra quelli delle raccomandazioni dell’UE né tra quelli del programma di governo.

Pensioni, consigli non richiesti a Letta e Giovannini per non impantanarsi

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