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Barack Obama, il presidente degli Stati Uniti, ha annunciato ieri di aver cancellato le esercitazioni militari congiunte con l’esercito egiziano in programma il prossimo mese, usando una delle poche opzioni a disposizione per mostrare il suo dissenso e fare pressione sul governo appoggiato dai militari, dopo la brutale repressione delle manifestazioni a sostegno di Mohamed Morsi, il presidente deposto.

Una decisione simbolica
Anche se la sua decisione crea imbarazzo tra i generali egiziani, al tempo stesso evidenzia l’impossibilità, per gli Stati Uniti, di influenzare gli eventi in Egitto, e la crescente frustrazione di Washington. I ripetuti appelli statunitensi ai generali per ripristinare la democrazia nel Paese non sono stati ascoltati, e la decisione – simbolica – di Obama di sospendere la consegna di quattro F-16 all’Egitto, alcune settimane fa, non ha avuto effetti. Obama, interrompendo le sue vacanze a Martha’s Vineyard per stigmatizzare le violenze in Egitto, ha mostrato un atteggiamento ormai familiare, in perenne equilibrio tra l’indignazione e la necessità di preservare le antiche relazioni tra Stati Uniti ed Egitto, che valgono un miliardo e mezzo di dollari all’anno in aiuti economici e militari. E che hanno un valore inestimabile dal punto di vista politico.

Ma in un momento in cui le forze armate egiziane non mostrano alcun segno di cedimento di fronte all’indignazione mondiale per quanto sta accadendo nel Paese, l’amministrazione Obama si trova di fronte a una scelta delicata, secondo il New York Times: appoggiare i generali, a qualsiasi costo, o ammettere che le relazioni attuali non sono più sostenibili. Non può certo bastare la cancellazione delle esercitazioni militari, conosciute come “Operation Bright Star” – nate negli anni ’80 in seguito agli accordi di Camp David tra Israele ed Egitto – per fermare i generali, secondo cui gli islamici che stanno protestando rappresentano “una minaccia” per la nazione.

In bilico tra Egitto e Israele
Obama e il suo staff stanno valutando le possibili misure da adottare, anche se l’interruzione degli aiuti militari non è mai stata finora menzionata: la Casa Bianca non crede che convincerebbe i generali a fare un passo indietro; al contrario, potrebbe destabilizzare la regione, mettendo a rischio anche la sicurezza di Israele. Non a caso, per settimane, funzionari di Israele e alcuni Paesi arabi hanno fatto pressioni sull’amministrazione, con l’obiettivo di convincere gli Stati Uniti a non interrompere gli aiuti. Farlo, in questo momento, non avrebbe effetti immediati, se non quello di indebolire l’influenza statunitense nel Paese e nell’area, aprendo le porte a Paesi arabi che stanno già finanziando il Cairo, come Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, e a nemici storici come Russia e Cina. In pratica, l’amministrazione sa che l’Egitto potrebbe facilmente, e subito, sostituire gli aiuti militari statunitensi.

Inoltre la questione, oltre a essere di politica estera, è strettamente legata all’economia nazionale, ed è più complessa di come generalmente viene presentata. Perché interrompere il canale di aiuti militari in direzione del Cairo – come previsto negli Stati Uniti dal “Foreign Assistance Act” in caso di colpi di Stato – significherebbe anche tagliare i profitti dei contractor statunitensi che producono gli F-16, i Blackhawk e gli M1 Abrams, che l’Egitto sta comprando. Dagli inizi degli anni ’80, gli Stati Uniti hanno permesso al Cairo di effettuare ordini di valore superiore alla quantità di aiuti accordata ogni anno dal Congresso americano per il settore militare egiziano.

Le implicazioni economiche
Con il meccanismo del “cash-flow financing”, l’Egitto continua a effettuare ordini per veicoli e attrezzature militari – che hanno bisogno di diversi anni per essere prodotti e consegnati – con la garanzia che Capitol Hill continuerà a elargire la stessa quantità di aiuti, anno dopo anno. Insomma, Washington ha consegnato al Cairo una carta di credito con un plafond di miliardi di dollari, un privilegio che in questi decenni è stato accordato solo a un altro Paese, un alleato storico come Israele. Tra il 1948 e il 2011, si calcola che gli Stati Uniti abbiano dato 71,6 miliardi di dollari in aiuti economici e militari all’Egitto.

Per questo, ora, è tutt’altro che facile interrompere questo meccanismo – con cui Washington compra dai contractor statunitensi i mezzi e le attrezzature che poi consegna all’Egitto – che per il prossimo anno fiscale prevede un finanziamento di 1,3 miliardi per il settore militare – in media con i finanziamenti elargiti dal 1987 – e 250 milioni in aiuti economici. Durante i decenni di regime autocratico, questo sistema ha rappresentato un’opportunità per Washington, una via d’uscita per il Cairo e ha fatto la fortuna dei contractor statunitensi, impegnati a rimpiazzare i vecchi mezzi e le attrezzature militari di stampo sovietico con quelli americani.
Il Pentagono ha ottenuto l’accesso al canale di Suez, ha rafforzato l’equilibrio nella regione e si è garantito il diritto di sorvolo sul Paese; l’Egitto, invece, ha negli anni sviluppato uno dei più potenti sistemi militari dell’area.

Gli accordi tra Usa e Egitto nel passato
Tra il 2008 e il 2012, Washington ha approvato ordini effettuati dall’Egitto del valore di oltre 8,5 miliardi di dollari – secondo gli ultimi dati del Pentagono – anche se il Congresso ne ha stanziati solo 6,3 in aiuti al Cairo; in questi cinque anni, l’Egitto ha ricevuto attrezzature militari del valore complessivo di 4,7 miliardi. Quei 3,8 miliardi di dollari di differenza con la spesa effettuata rappresentano un chiaro dato di cosa significherebbe fermare gli aiuti all’Egitto, e del limbo in cui finirebbero gli ordini e i soldi che scorrono attraverso il canale tra i due Paesi. Miliardi di dollari che finiscono nelle casse di Lockheed Martin, Honeywell, General Dynamics e Boeing, solo per citare le aziende più importanti, che già devono affrontare i tagli alla spesa da 37 miliardi imposti al Pentagono.

Gli Stati Uniti hanno cominciato a capire la portata del problema lo scorso anno, notando il cambiamento in atto in Egitto – con la vittoria alle elezioni dei Fratelli Musulmani – e nelle loro relazioni con il Cairo. Un rapporto, preparato per i membri del Congresso che avevano protestato per la repressione attuata dalle autorità egiziane contro le organizzazioni a sostegno della democrazia finanziate dagli Stati Uniti, sottolineava il possibile impatto “devastante” sulle aziende statunitensi di un’interruzione degli aiuti al Cairo. Eppure, già nel 1982, il Gao (“Government accountability office”), che ha compiti di controllo in materia contabile, aveva lanciato l’allarme sulle conseguenze imprevedibili del “cash-flow financing”; il Gao ha poi ribadito le sue perplessità nel 2006, quando ha imputato ai membri del Congresso l’incapacità di “identificare i rischi e gli impatti” di tale politica. La revoca degli aiuti all’Egitto, insomma, avrebbe un impatto maggiore, per alcuni “devastante”, soprattutto sugli Stati Uniti.

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