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Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Il tormentone continua. Dopo la megalettera dell’11 settembre, inviata dal Papa a Eugenio Scalfari e pubblicata su «Repubblica», ecco ora una ancor più lunga intervista, anzi una confessione, chiesta da Bergoglio a Scalfari. In essa il Vescovo di Roma si scusa col Papa laico per le colpe della Chiesa, «dominata dal temporalismo».
Il tutto verrà affidato alla storia con un volumetto, che «Repubblica» metterà in vendita l’11 prossimo.

Per capire l’insistenza con cui il Papa dialoga con atei e non credenti, occorre riferirsi a quel momento storico, in cui l’apertura dei cattolici alla modernità ebbe inizio. Dei cattolici, non della Chiesa cattolica, la quale anzi rifiutò e condannò il «modernismo». Una corrente dovunque combattuta e pertanto costretta, nel clima di denunce e persecuzioni, a servirsi di linguaggi equivoci e allusivi. È paradossale che non abbiamo un solo documento che esprima in sintesi il programma dei «modernisti» (Loisy, Tyrrell, Buonaiuti, ecc.). E che la sintesi più autorevole e anche onesta delle loro dottrine sia propria quell’enciclica (Pascendi, di Pio X, 1907) che li condannava. Così la pensavano Croce e Gentile, decisi avversari del modernismo.

Nell’epoca del protestantesimo liberale, i modernisti intendevano aprirsi alla scienza (da Galileo a Darwin), alla democrazia e al socialismo. Senza uscire dalla Chiesa. Tale atteggiamento si concretò in alcune convinzioni:

1. il Vangelo, sottoposto a critica storica, precede e prevale sui dogmi, considerati meri simboli storicamente condizionati e in evoluzione;

2. il Cristo reale della storia e quello mitico della fede sono diversi;

3. Dio non è dimostrabile razionalmente, dato che l’uomo conosce solo i fenomeni (agnosticismo);

4. il luogo della religione non è la ragione, ma la fede e il sentimento (immanenza vitale);

5. la Chiesa non è una istituzione fondata da Cristo, ma la semplice comunità vitale dei credenti;

6. Chiesa e Stato devono essere separati, dato che il fine della Chiesa è soprannaturale.

Difficile dubitare della buona fede dei modernisti (basta leggere la toccante autobiografia di Buonaiuti, «Pellegrino di Roma»). Essi miravano al rinnovamento della fede, alla critica della teologia intellettualista, alla purificazione della liturgia dal ritualismo astratto, all’aggiornamento degli studi sulla religione, alla ricerca di una convergenza tra cristianesimo, scienza e democrazia, alla demolizione dell’eccessivo giuridicismo e verticalismo delle istituzioni ecclesiastiche, alla democratizzazione delle curie (il papa è solo il «vescovo di Roma»). Ma col pericolo, poi puntualmente verificatosi nel post-concilio, di favorire crisi delle vocazioni, dissoluzione degli ordini religiosi, secolarizzazione, ateismo, indifferentismo, relativismo morale, politicizzazione dell’attività religiosa. Che sono i caratteri oggi prevalenti in tutti i paesi occidentali.

La reazione della Chiesa (scomuniche e obbligo per i preti del «giuramento antimodernista», condanna del poligenismo e della nuova teologia) frenò a lungo il modernismo, che continuò ad operare sotto la superficie ed esplose forte col Concilio Vaticano II: «Una polmonite rispetto al precedente raffreddore» (Maritain). Nessun dogma venne toccato e la cornice dei documenti (soprattutto «Gaudium et spes» sul mondo contemporaneo e «Dignitatis humanae» sul pluralismo religioso) rimase la tradizione, ma le aperture pastorali andavano nel senso stesso del movimento modernista.

La fine sensibilità «postmoderna» di papa Francesco non poteva non capire la situazione di diaspora e dissoluzione del mondo cattolico oggi. Troppo spesso la religione è un fatto soggettivo e privato, è fuori delle istituzioni sociali e occupa il tempo libero, come compenso fideistico e audiovisivo delle paure di un mondo sempre più anonimo e privo di speranza. Dio è morto, ma anche i miti della modernità sono in frantumi. Resta l’oblìo di un passato perduto, l’angoscia di un presente vissuto nella quotidianità effimera e la caduta delle speranze mondane. E tutto ciò produce la nostalgia di una parola religiosa, che parli al sentimento, senza chiamare in causa la razionalità.

Bergoglio non intende solo, come è largamente richiesto, ripulire la curia, ma anche inventare una nuova pastorale, che si lascia alle spalle «la solenne sciocchezza del proselitismo» e accetta gli uomini per quel che sono, non li giudica, ma li consola e conforta. La schiettezza del Papa è totale. Egli propone di «ripartire dal Concilio e aprire alla cultura moderna». È una delle vie possibili, anche se finora non ha ottenuto molto.

In ciò la differenza tra Bergoglio da un lato e la coppia Wojtyla-Ratzinger dall’altra. La Chiesa si è sempre aperta a tutte le epoche storiche. Tuttavia non l’ha fatto con il sentimentalismo e il buonismo, ma con una dialettica di apertura e chiusura, ossia distinguendo in ogni epoca che cosa era compatibile con la sua tradizione e che cosa, invece, non lo era.

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