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E’ trascorso poco meno di un anno dall’11 settembre 2012 quando un tragico attentato a Bengasi costò la vita dell’ambasciatore americano Chris Stevens. Per l’amministrazione Obama, e per tutte le forze alleate che avevano scelto di sostenere proprio i ribelli di Bengasi contro il regime di Gheddafi, è una ferita ancora sanguinante. Non si tratta solo, evidentemente, di una bruciante sconfitta di intelligence rispetto alla capacità terroristica di al Qaeda ma anche e soprattutto il segnale della mancata stabilizzazione di un Paese centrale nell’equilibrio del Mediterraneo. E mentre tutti i riflettori internazionali sono puntati sulla Siria, sarebbe forse il caso – e tanto più per l’Italia e l’Europa – di iniziare a rifocalizzare gli sforzi politici, economici e militari verso quella Libia che è divenuta in poco tempo, dopo la sciagurata campagna francese, crocevia di attentati, traffici di armi, palestra a cielo aperto di kamikaze, centrale per l’immigrazione clandestina.

Indipendentemente da quello che accadrà a Damasco, non può essere smarrita la priorità di attenzione verso il Paese che è più pericolosamente vicino alle nostre frontiere. Una sottovalutazione del caso potrebbe essere fatale (e forse comunque già tardivo).

Violenza e terrorismo

Yusuf Ali al Asifar, procuratore generale militare, è morto ieri in un attentato realizzato attraverso l’esplosione di un ordigno posizionato sotto la sua auto. E’ l’ultima vittima, in ordine di tempo, degli scontri e degli omicidi di matrice politica che hanno avuto come teatro l’area orientale della Libia che fa riferimento alla città di Bengasi. Membri delle forse di sicurezza, giudici, attivisti politici e giornalisti costituiscono un lungo e inaccettabile elenco di persone che hanno nelle ultime settimane perso la vita in agguati terroristici.

La Libia infatti è divenuta luogo ideale per un intenso traffico di armi destinato ad alimentare le violenze in tutta l’area che dal nord Africa raggiunge il Medio Oriente. In Egitto è stato il premier Hazem al Beblawi a convocare l’ambasciatore libico Jibril per invocare maggiori sforzi nel tenere sotto controllo il confine per arrestare o limitare l’incessante ingresso illegale di armi. La “zona franca” che si è determinata nel paese che è stato governato per molti anni da Gheddafi spaventa e non poco anche la Tunisia la cui presidenza ha disposto la creazione di zone militari “tampone” proprio lungo la frontiera della Libia e per sconfiggere il terrorismo e il traffico di armi. Da segnalare infine la fuga di oltre mille detenuti dal carcere di Al-Kuifyia a Bengasi. Un piccolo esercito di potenziali terroristi che ha conquistato la libertà di muoversi nel paese ma anche di attraversare i confini compreso quello per l’Europa attraverso la Sicilia. Una minaccia non poco inquietante.

Petrolio

La Libia detiene importanti giacimenti di petrolio e gas ed è proprio il greggio ed il suo controllo al centro di violenti scontri. Ancora nella giornata di ieri a Tripoli si registravano lunghissime code ai distributori di benzina. La paura della popolazione è quella di restare privi di carburante a causa degli scioperi e delle chiusure dei principali siti di estrazione ed esportazione dell’oro nero. Le tensioni maggiori si sono registrate nei terminal petroliferi di Sidr, Al Hariga, Zuetina, Ras Lanuf. A questi impianto vanno aggiunti i giacimenti di El Fil, gestito dall’italiana Eni, e Sharara, dove opera Repsol, le cui attività sarebbero state bloccate da uomini armati che secondo la Compagnia petrolifera libica (Noc) non avrebbero nulla a che fare con gli scioperi del personale che invece sono in corso dalla fine di luglio. Complessivamente, secondo il ministro del petrolio AbdelBari Al Arusi ed il premier Al Zeidan, la somma delle proteste sono costate sinora oltre 2 milioni di dollari. Una somma non modesta per un paese le cui difficoltà economiche non fanno altro che aggravare la crisi sociale.

L’impatto sull’economia italiana

I disordini in Libia e le controversie legate alla forza lavoro hanno inciso negativamente su Eni per circa 20mila barili/giorno solo nel I semestre. I blocchi e le interruzioni che sembrano andare consolidandosi in questi mesi potrebbero far lievitare ulteriormente i costi per la compagnia italiana con ricadute su tutta la filiera (anche considerando i problemi di instabilità che si registrano anche in Nigeria). D’altra parte i fortissimi legami di Gheddafi con l’Italia non si sono limitati alle sole attività petrolifere: il fondo sovrano libico (Lia) ha nel tempo investito circa un quarto di tutte le sue risorse – per un valore stimato di oltre 5 miliardi di dollari – proprio in Italia con quote di partecipazione in Fiat, Fiat Industrial, Juventus, Eni, Finmeccanica e Unicredit. Queste erano state “congelate” con lo scoppiare dell’intervento militare che ha portato alla destituzione di Gheddafi ma dallo scorso novembre sono state dissequestrate e tornate nelle disponibilità delle autorità del paese nord africano. Non solo. Sulla base degli accordi stipulati dall’allora presidente del Consiglio italiano, sono significativi gli importi destinati ad imprese italiane per lavori infrastrutturali. Qui, a giocare un ruolo significativo è Salini Impregilo che, per esempio, è leader al 58% del consorzio di aziende che comprende Condotte, Pizzarotti e Cmc, che realizzerà il primo lotto della nuova autostrada costiera libica per un valore complessivo di quasi un miliardo di euro. Sempre il gruppo Salini si è recentemente aggiudicato il contratto per l’ammodernamento dell’aeroporto di Kufra, riaperto a luglio dopo nove anni di inattività.

L’impegno internazionale

Mentre durante le operazioni militari, il ruolo dell’Italia fu importante ma marginale rispetto all’intraprendenza (temeraria) dei francesi, il nostro Paese – anche grazie al ruolo della nostra intelligence in Libia – ha recentemente ripreso quel ruolo di protagonista che aveva anche in passato. La formalizzazione della funzione di coordinamento degli attori occidentali è avvenuta nel G8 di giugno in Irlanda. Qui è stato proprio il presidente americano, Barack Obama, a rivolgersi al premier Enrico Letta per chiedergli “assistenza”.

L’impegno italiano si è subito concretizzato in diversi progetti di formazione, alcuni dei quali riguarderanno oltre 5000 militari libici, e nelle attività di “Institution Buiding”, di rafforzamento delle forze di sicurezza e della Guardia costiera nonché di assistenza nell’opera di sminamento del territorio. Lo scorso 4 luglio, il presidente del Consiglio ha ricevuto a Palazzo Chigi l’omologo libico Al Zeidan. In questa occasione non solo è stato ribadito il legame di amicizia dei due paesi e gli impegni reciproci (compreso quello libico nel contrasto all’immigrazione clandestina).

Quel giorno Enrico Letta ha annunciato la volontà di organizzare entro la fine dell’anno una Conferenza Internazionale da tenersi a Roma ed avente ad oggetto proprio la stabilizzazione della Libia. L’acuirsi delle difficoltà registrate fra Tripoli e Bengasi in questi ultimi due mesi suggerisce di accelerare i tempi. La crisi politico-militare in Siria è un motivo in più per lavorare come Italia e Europa a questa che per noi resta, per una ragione in più, una priorità.

Cari Letta e Bonino, la nostra priorità resta la Libia

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