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Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo l’intervista di Marco Valerio Lo Prete, giornalista del Foglio, apparsa sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Oggi, dopo una lunga attesa scandita quotidianamente da giornali e tg, la Cassazione si pronuncerà sul processo Mediaset che coinvolge Silvio Berlusconi. Comunque vada, anche il solo consumarsi di questo rito insolito – quello cioè di un conto alla rovescia condotto a media unificati e durato settimane – consiglierebbe riflessioni finalmente laiche sul fenomeno berlusconiano. È quanto si propone di fare Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea all’Università Luiss di Roma, nel suo ultimo libro pubblicato per Marsilio, «Il berlusconismo nella storia d’Italia».

Titolo apparentemente «neutro» che però segnala già due differenziazioni di non poco conto rispetto alla pubblicistica (quantitativamente sterminata ma non per questo qualitativamente approfondita) che ha riguardato l’ex presidente del consiglio: primo, Orsina si concentra sul «berlusconismo» e non su Berlusconi perché riconosce la «sostanza politica» del fenomeno; inoltre quel titolo lascia intendere che sbaglierebbe chi continuasse a cercare le radici del berlusconismo soltanto «nel passato prossimo degli anni ottanta o addirittura in quello vicinissimo di tangentopoli».

A chi finora ha spiegato il successo del berlusconismo esclusivamente come una miscela fortunata di «potenti mezzi» (mediatici) e «popolo bue» (votante), Orsina suggerisce invece di non dimenticare l’ «emulsione di populismo e liberalismo» che è alla base del fenomeno, ne costituisce lo «spessore» politico ed è «causa non ultima» della sua affermazione. Analizzando infatti i principali discorsi del leader del centrodestra, a partire dalla nota frase «L’Italia è il paese che amo» del 1994, lo studioso mette in luce che «prima di lui, dal Risorgimento a oggi, nessun leader politico di primo piano, capace di vincere le elezioni e salire alla guida del governo, aveva mai osato dire in maniera così aperta, esplicita, sfrontata, impudente che gli italiani vanno benissimo così come sono».

Dall’elogio di «tutti coloro che assumono su di sé il rischio del lavoro autonomo» (virgolettato di Berlusconi nel 2000) alla celebrazione delle «forze spontanee del Sud» da liberare da «un ambiente ostile» (2001), l’esaltazione della società civile è un leitmotiv del discorso politico berlusconiano. Il fondatore di Forza Italia e del Pdl non ha fatto altro che portare questo discorso fino alle estreme e logiche conseguenze: «Se le cose non vanno bene, se il paese è sfiduciato, se gli imprenditori italiani perdono quote di mercato – scrive Orsina ricostruendo il messaggio del Cavaliere – la colpa non può allora essere della società civile, ma va piuttosto attribuita alle istituzioni pubbliche e alle élite politiche».

L’apologia del paese reale (o così com’è) presuppone l’adeguamento a esso del paese legale, e non viceversa. Ne discende che invece di ergersi a correttore dell’antropologia degli italiani, come hanno e fatto e continuano a fare schiere di politici e tecnocrati che Orsina ascrive alla tradizione «pedagogica e ortopedica» italiana, Berlusconi ha per esempio messo al centro della sua proposta politica uno «Stato amico al servizio dei cittadini», che non spaventi gli italiani ma al contrario garantisca loro il «diritto di non avere paura», sostenendo – soprattutto negli anni Novanta e poi sempre meno – che lo Stato va reso più leggero e meno intrusivo.

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