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Nella sua consueta relazione annuale, la Consob ha illustrato i dati e gli andamenti della Borsa di Milano e delle aziende quotate. Un dato su tutti fa riflettere: la capitalizzazione di tutte le aziende quotate in Italia è di poco inferiore a quella della sola Apple al New York Stock Exchange. Siamo malati di nanismo industriale, aggravato negli ultimi anni dalla crisi che ha ridotto il valore delle aziende in Borsa.

Le dimensioni ridotte, la crisi di liquidità e il controvalore finanziario rendono le nostre aziende appetibili per possibili acquisizioni dall’estero, soprattutto dai Paesi emergenti. Non che questo rappresenti una tragedia di per sé. Il professor Francesco Giavazzi, in un interessante editoriale sul Corsera di diversi anni fa, proponeva il “modello Wimbledon” per il capitalismo italiano e non solo. Non conta la proprietà, quanto lo stato di salute e le prospettive di crescita delle aziende. Wimbledon rievoca nell’immaginario collettivo e non solo il massimo dell’ ”anglosassonità”: prato verdissimo, stile reale, prestigio, magari del tempo che fu. Ma un tennista inglese non vince Wimbledon da quasi cinquant’anni. E ciò nonostante dici Wimbledon e pensi alla Corona.

In un mercato però particolarmente fluido a destare preoccupazione sono le possibili scalate di aziende strategiche per l’interesse e la sicurezza nazionale. Aziende dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’aerospazio e difesa. Ma anche quelle piccole e medie imprese che producono pezzi di un’eccellenza più ampia, come nella biotecnologia o nell’agroalimentare. I governi, in Europa e non solo, si sono attrezzati negli anni scorsi mettendo al riparo i gioielli di Stato dal pericolo che qualcuno li compri, magari smembrandoli o portando fuori dai confini tecnologia, sapere, segreti industriali. In Italia, sotto la spinta dell’Unione Europea, ci siamo arrivati di recente, con il decreto del Governo Monti sulla cosiddetta Golden Share.

Il decreto afferma un principio semplice ma molto importante: ogni volta che un’azienda sensibile è oggetto di acquisizione diretta o di scalata per via finanziaria, il governo si riserva di bloccare l’azione, invocando il principio della superiorità dell’interesse strategico nazionale. Ci sono voluti dieci mesi perché si arrivasse ai regolamenti attuativi, emanati appena qualche settimana fa. Il percorso non è ancora completo: manca ancora una disciplina attuativa sul settore strategico per antonomasia, quello della difesa e sicurezza.

Quello della tutela degli asset industriali strategici non è un tema d’accademia. Se ne parla molto in Europa e in America adesso che gli attori finanziali e industriali mondiali hanno assunto dimensioni gigantesche: i Fondi Sovrani del Golfo o gli operatori economici cinesi e indiani hanno ormai la capacità finanziaria potenziale per acquisire qualsiasi grande gruppo italiano o europeo.

Anche quando i tentativi di scalata non sono ostili c’è da valutare le implicazioni di un’operazione di acquisizione. E’ il caso della vicenda Telecom e della trattativa in corso con H3G. Se ne tornerà a parlare presto, già alla fine di questo mese. Sotto il profilo economico e finanziario l’operazione ha molto senso: la separazione tra proprietà della rete e gestione dei servizi è ormai una realtà incontrovertibile per questo come per altri settori. E sia la rete che i servizi in Italia hanno bisogno di essere potenziati. Un partner industriale e finanziario forte apre strade nuove per un investimento che è difficile altrimenti garantire. Prova ne sia il lungo dibattito sulla banda larga in Italia, un’infrastruttura strategica che si scontra con l’impossibilità di garantire adeguati fondi pubblici.

Anche in questo caso, al di là degli aspetti finanziari, si pone però il tema della salvaguardia della sicurezza nazionale. E’ giusto concedere a un operatore straniero la possibilità di accedere ad un’infrastruttura critica e, soprattutto, alle informazioni che attraverso di essa vengono veicolate? E, se la preoccupazione fosse fondata, quale può essere l’alternativa?

Di certo i primi passi del piano Telecom–Hutchinson Whampoa, non sembrano delineare un caso limite. Si prevede infatti che l’integrazione riguardi soprattutto la rete mobile, con la convergenza dei due operatori, mentre lo scorporo della rete e il suo passaggio magari sotto Cassa Depositi e Prestiti in termini di proprietà darebbero garanzie in termini di assetti. Ma, se non questa volta e se non sul caso specifico di Telecom, il problema prima o poi si presenterà e andrà affrontato.

Nessun governo può fare a meno di guardare agli aspetti di sicurezza quando si parla di asset strategici per il buon funzionamento dello Stato e la salute della Repubblica. Ma non tutto è strategico ed essenziale in tal senso. Una lista delle priorità è quindi il primo passo per definire il perimetro di quello a cui non possiamo rinunciare. Una volta definita la lista del nostro interesse nazionale, esistono apparati e strutture in grado di valutare il rischio e di fornire ai decisori politici gli elementi necessari a valutare le opportunità.

Non esiste, insomma, una soluzione passepartout. Ma esistono buone strutture dello Stato che sapranno, al momento giusto, supportare la decisione migliore per il Paese. 

Francesco Morosini

 

Rete Telecom, Finmeccanica & Co. Cersasi piano per sicurezza nazionale

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