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La punta avanzata della chiesa
Quelle “minoranze creative” (come ha definito i movimenti lo storico del cristianesimo, Alberto Melloni) che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno portato ai vertici delle istituzioni ecclesiastiche, per Francesco non sono altro che “la punta avanzata della chiesa, da inviare lontano, alla frontiera”.
Il ruolo dei movimenti, diceva l’allora arcivescovo di Buenos Aires, non deve essere quello di partecipare alla gestione degli affari di curia, bensì di andare là dove la struttura della chiesa non riesce più ad arrivare, spesso per la mancanza di personale e calo delle vocazioni. Per il gesuita argentino, i movimenti sono sempre stati dei “battitori liberi” cui affidare le missioni più delicate, dice don Mario Peretti, assistente della Fraternità di Comunione e Liberazione a Buenos Aires.

La vocazione missionaria
Da parte di Bergoglio non c’è né perplessità né ostilità nei confronti delle comunità ecclesiali, come dimostra la sua vicinanza al Rinnovamento carismatico e al pensiero di don Giussani, che lui stesso ha contribuito a diffondere in America Latina negli ultimi decenni.
Nella visione di Francesco ci deve essere però un riequilibrio delle competenze, per sfruttare al meglio tutte le forze di cui dispone oggi la chiesa: essenzialità della parrocchia come primo riferimento per cattolici e vocazione missionaria dei movimenti.
Una politica pastorale in piena continuità con quanto disse nel 1998 Karol Wojtyla parlando ai membri delle comunità ecclesiali riuniti in piazza san Pietro in occasione del loro primo congresso mondiale: “Confido che voi, in comunione con i pastori e in collegamento con le iniziative diocesane, porterete nel cuore della chiesa la vostra ricchezza spirituale, educative e missionaria”.

L’evangelizzazione per il sudamericano Bergoglio
I movimenti come eredi degli apostoli, dei primi cristiani mandati a evangelizzare le terre più remote. E’ questo ciò che chiede il Papa alle centinaia di migliaia di individui che hanno compiuto una scelta di spiritualità, aderendo a comunità che nel corso del tempo si sono rafforzate e ramificate ovunque nel mondo.
Intende così, Jorge Bergoglio, la nuova evangelizzazione, missione che già Ratzinger aveva posto in testa alla propria agenda pastorale, tanto da creare un ufficio curiale ad hoc.
Non si tratta di organizzare convegni o seminari per analizzare il problema – “mentre si fanno grandi discussioni, la gente muore di fame”, diceva due giorni fa il Papa in una delle sue omelie mattutine a Santa Marta – ma di uscire dalle canoniche e andare lontano. “Sperimentare l’unzione, uscire, andare nelle periferie dove c’è sangue versato”, scandiva in san Pietro durante la predica della solenne messa crismale, pochi giorni prima della scorsa Pasqua.
Si tratta di portare al centro ciò che è marginale, di andare a presidiare quei settori della società sensibili al richiamo delle sette e del secolarismo.

La crescita delle sette
Una battaglia, quella contro le sette, che ha visto l’allora cardinale primate d’Argentina combattere in prima linea. In America del sud il fenomeno è in crescita costante da almeno trent’anni; il Brasile vede nascere ogni giorno nuove forme organizzative e comunità che si richiamano al cristianesimo ma che con questo, spesso, non hanno nulla a che fare.

La “Guerra de Dios” di Bergoglio
Nel 2005, intervenendo al Sinodo per l’Eucarestia, il cardinale Claudio Hummes (già arcivescovo di San Paolo e grande elettore di Bergoglio) si chiedeva “fino a quando il Brasile potrà dirsi cattolico”. Sette, aborto, messa in discussione della famiglia tradizionale: sono questi i terreni su cui l’ex arcivescovo di Buenos Aires aveva chiamato a raccolta anche i movimenti per quella “guerra de Dios” necessaria a difendere “il progetto divino”.
Nulla fa pensare che l’antico progetto di battaglia del primate d’Argentina sarà messo nel cassetto ora che è salito al Soglio di Pietro.

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